sabato 30 luglio 2011

Arrivano i Titani (1961)

di Duccio Tessari


Duccio Tessari (Genova, 1926 - Roma, 1994) è un autore a tutto tondo del nostro cinema di genere, prima prolifico sceneggiatore di pellicole mitologiche e documentarista, quindi regista di fiction capace di muoversi con disinvoltura tra peplum, western, commedia, poliziesco, melodramma, thriller, film d’avventura e di guerra. La sua cifra stilistica è l’ironia, che anticipa i lavori anni Ottanta del western comico interpretati da Bud Spencer e Terence Hill. Una pistola per Ringo e Il ritorno di Ringo sono due western del 1965 che si ricordano con piacere, ma è notevole anche il poliziesco La morte risale a ieri sera, ispirato a un romanzo di Scerbanenco con protagonista Duca Lamberti. La critica è unanime nel dire che il suo film più riuscito è Tony Arzenta (1973), un noir interpretato da Alain Delon. Tessari si dedica a smitizzare i generi, trattandoli con ironia, ma nell’ultima parte della carriera gira molti film televisivi affrontando argomenti più seriosi. Il suo unico errore è stato aver tentato di portare al cinema un mito come Tex nel poco riuscito Tex e il signore degli abissi (1985), interpretato da Giuliano Gemma.


Arrivano i Titani (1961) è il primo film da regista di Duccio Tessari, una parodia di un genere al quale ha dedicato tutta la prima parte della sua carriera. La pellicola anticipa il western all’italiana, che sarà un altro degli amori di Tessari, ma soprattutto il western comico e scanzonato di Enzo Barboni. 
Soggetto e Sceneggiatura: Duccio Tessari ed Ennio De Concini. Musiche: Carlo Rustichelli. Montaggio: Maurizio Lucidi. Fotografia: Alfio Contini. Produttore: Franco Cristaldi. Interpreti: Pedro Armendáriz (Cadmo), Giuliano Gemma (Crios), Jacqueline Sassard (Antiope), Antonella Lualdi, Serge Nubret, Gérard Séty, Tanya Lopert, Ingrid Schoelle, Franco Lantieri, Monica Berger, Maria Luisa Rispoli, Isarco Ravaioli, Aldo Podinottì, Fernando Rey, Fernando Sancho, Alfio Caltabiano, Ileana Grimaldi ed Erika Spaggiari.


L’azione si svolge a Creta, governata dal folle tiranno Cadmo, che ha avuto una terribile profezia: perderà il trono se la figlia Antiope si innamorerà. Cadmo si autoproclama Dio, rende immortale anche la moglie, quindi rinchiude la figlia in una prigione dorata, privandola di contatti con l’esterno. Giove, che non sopporta miscredenti e tiranni dispotici, si adira con Cadmo e manda sulla Terra il Titano Crios con il compito di uccidere il signore di Creta. Al termine di una serie di avventure mirabolanti, Crios corona il suo sogno d’amore con Antiope e l’intervento degli altri Titani provoca una rivolta popolare contro il tiranno.


Duccio Tessari dopo aver sceneggiato molti peplum seriosi e avventurosi si dedica alla smitizzazione del genere, chiamando a interpretare la pellicola un insolitamente biondo Giuliano Gemma, alla prima prova come attore dopo anni di gavetta. La pellicola può dirsi riuscita anche per merito dell’interpretazione sopra le righe di un ottimo Giuliano Gemma. L’attore rende credibile un personaggio scaltro e acrobatico, che lotta per la libertà e per conquistare il suo amore. Il regista e lo sceneggiatore compongono un calderone di ricordi mitologici che vanno da Polifemo alle Parche, passando per la Gorgone, Plutone e il regno negli inferi, ma ben amalgamato e ancora oggi godibile in un contesto ironico e di pura azione. Le sequenze che vedono Giuliano Gemma e i suoi fratelli Titani impegnati in solenni scazzottate anticipano il clima da spaghetti - western e il cinema comico anni Ottanta di ambientazione western.


Arrivano i Titani è un interessante esempio di commistione dei generi, perché al suo interno troviamo il peplum classico rivisto alla lente dell’ironia tipica di Tessari, il melodramma, l’action - movie,  suggestioni horror, elementi di cinema fantastico e parti di puro romanticismo. Un film sperimentale, una provocazione a metà strada tra il mitologico e il melodramma sentimentale. Le scenografie sono spesso di cartapesta colorata, ma si segnalano ottimi esterni e parti suggestive girate all’interno di grotte che compongono una buona atmosfera infernale. Il clima da horror fantastico è evidente nelle scenografie cupe, nella discesa negli inferi e in alcune sequenze che vedono protagonisti ciclopi, esseri mitologici e divinità dell’Olimpo. Puro cinema fantastico quando Giuliano Gemma ruba l’elmo di Plutone che lo rende indivisibile ai soldati del signore di Creta. Le sequenze di azione sono spettacolari e Giuliano Gemma fa sfoggio di tutta la sua prestanza fisica e abilità di acrobata. Il messaggio politico è presente come in tutti i peplum, anche se molto sfumato: “Le parole di un uomo libero nessuno può imbrigliarle”, dice Giuliano Gemma in una delle prime sequenze.


Segnaliamo diversi falsi storici e commistioni di usanze che non hanno niente a che vedere con la Grecia, come quando il regista mette in scena una sorta di corrida tra tori e amazzoni, che sembra un inserto riempitivo prelevato da un’altra pellicola.
Il personaggio interpretato da Giuliano Gemma è un abile ribelle dalla lingua sciolta, che sfida il signore di Creta per amore e per compiere il volere di Zeus. Il suo messaggio è non violento e cavalleresco: “Basta vincere. Non c’è bisogno di uccidere”. Jacqueline Sassard è bella ed espressiva, perfetta nella parte della ragazza ingenua, sacrificata al volere di un dispotico padre. A un certo punto si intravede, molto sfumato, pure un seno nudo. Il massimo dell’erotismo per i tempi, insieme ad alcuni baci sensuali. Il finale vede la consueta sfida tra buono e cattivo con conseguente liberazione della bella in pericolo, ma anche un velato romanticismo con la storia d’amore che giunge a compimento. I Titani liberano Creta da un signore dispotico e si abbandonano alla consueta ironia: “Questa è stata proprio un’impresa titanica!”. Da riscoprire.

venerdì 29 luglio 2011

Fratelli d’Italia (1989)

di Neri Parenti


Regia di Neri Parenti. Soggetto e Sceneggiatura: Carlo ed Enrico Vanzina. Interpreti: Christian De Sica, Jerry Calà, Massimo Boldi, Sabrina Salerno, Massimo Serato, Gloria Paul e Maurizio Mattioli.

Neri Parenti

Fratelli d’Italia è commedia all’italiana in tre episodi - non uniformi e abbastanza volgari - tutto sommato divertente, soprattutto quando si ispira alla pochade e alla commedia sexy.
Christian De Sica è un borgataro romano che si spaccia per il figlio di Gardini per conquistare una bella ma volubile ragazza dell’alta società. Alla fine decide di tornare con i suoi simili, abbandona lo yacht dei ricconi e preferisce la compagnia dei trucidi che se la fanno con due ragazze di strada. Il tema non è nuovo nella commedia all’italiana, alta o bassa che sia, ricordiamo simili personaggi interpretati da Vittorio De Sica e Luigi Proietti.

Christian De Sica

Jerry Calà è un playboy di provincia che scommette un milione con gli amici del bar per portarsi a letto la moglie del padrone dell’azienda in cui lavora. Sabrina Salerno interpreta da par suo la disponibile compagna del re del panettone veronese (il dottor Sauli, impersonato da un ottimo Gian), perché come curve non le manca niente, ma la sua recitazione è a livelli molto modesti. L’episodio termina con la sconfitta del playboy che si trova a fronteggiare un’improvvisa apparizione del padrone nell’albergo dove si era rifugiato per consumare il tradimento. Commedia sexy citata a piene mani, ma più morigerata che in passato, diluita in salsa pretelevisiva.

Sabrina Salerno

Il terzo episodio vede un ottimo Massimo Boldi nei panni di un tifoso del Milan in trasferta che deve fingersi romanista per non essere fatto a pezzi da due ultrà capitolini. Il finale vede Boldi massacrato da tifosi rossoneri, romanisti e persino dalla polizia.

Massimo Boldi

I tre episodi sono legati dal misero collante di un’auto a noleggio in transito che introduce il protagonista della storia successiva. Non si tratta di grande commedia all’italiana, ma gli interpreti sono bravi e si muovono bene conferendo spessore a tre storie ispirate al nostro cinema del passato. Il segmento più debole è il primo, interpretato da un diligente Christian De Sica, mentre Jerry Calà rispolvera la commedia sexy e la pochade in una farsa degli equivoci divertente anche per la presenza di un’ottima spalla come Gian. 

Sabrina Salerno

Parenti cita a piene mani l’erotismo degli anni Settanta, mitigandolo come suo stile e non concedendo più di tanto alla vista degli spettatori. Per esempio vediamo Gian sbirciare la moglie dal buco della serratura, ma il regista non insiste e fa solo intuire, senza mostrare quello che il marito vede nel bagno. L’episodio più riuscito è il terzo che vede Boldi alle prese con il suo personaggio preferito: il milanese sciocco vessato dai prepotenti e costretto a comportamenti fantozziani.
Soggetto e sceneggiatura sono di Carlo ed Enrico Vanzina. Non si fa fatica a notarlo perché i personaggi sono tipici della loro filosofia.

Banditi a Milano (1968)

di Carlo Lizzani


  
Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani è interpretato da Tomas Milian, Gian Maria Volonté, Don Backy (Aldo Caponi), Margaret Lee, Ray Lovelock, Piero Mazzarella, Giorgio Gaslini, Agostina Belli e Carla Gravina. Il film è impostato come una finta intervista a un commissario di polizia, impersonato da un elegantissimo Tomas Milian che fuma sigarette con bocchino alla moda. La tecnica di regia ricorda pellicole come Helga (1967) di Erich Bender e i mondo movies, finti reportage nel mondo del sesso o alla scoperta di paesi esotici. Carlo Lizzani utilizza attori professionisti per raccontare cose vere e per realizzare un film denuncia sulla criminalità in aumento nelle grandi città. Milano viene presa ad esempio di ciò che sta accadendo in ogni parte del paese. Sono abbastanza risibili e fuori luogo le sequenze iniziali con una finta intervista a un ex delinquente (Gino Rossetti detto Luigi Lo Zoppo) che ricorda con nostalgia come erano gentleman i vecchi malviventi per concludere che la criminalità è cambiata. Il ruolo del rapinatore è visto con una sorta di assurdo romanticismo (“noi mettevamo a loro agio i rapinati, sapevamo cosa dire e cosa fare…”) e si aggiunge che se oggi non è più così la colpa è dei fumetti neri (sic!). L’intervista prosegue al commissario Tomas Milian che si presenta in una mise inedita rispetto allo spaghetti western, sbarbato, capelli corti e lisci, sigaretta in bocca e disponibile al dialogo.


Vengono presentati alcuni episodi di criminalità urbana per far capire come sia cambiato il crimine seguendo l’esempio statunitense. Il racket e la protezione sono una faccia della medaglia, lo sfruttamento della prostituzione un’altra ancora, le case da gioco clandestine completano il quadro. Da ricordare in questa prima parte la partecipazione della bella attrice inglese Margaret Lee che impersona una ragazza ingannata e uccisa dal protettore. Carla Gravina fa una rapida apparizione nei panni di una ragazza ninfomane che chiama la polizia per essere difesa dai banditi, ma vorrebbe un agente prestante. Tutta la prima parte è molto datata, ai limiti dell’inguardabile, gli episodi narrati fanno solo sorridere e non sono per niente efficaci. Il vero film invece comincia quando Lizzani ricostruisce con dovizia di particolari la sanguinosa rapina all’Agenzia del Banco di Napoli in Largo Zandonai a Milano, per opera della banda di Piero Cavallero (Volonté).


La ricostruzione di Lizzani è confusa e frettolosa, ma è comprensibile perché giunge sul grande schermo a soli sette mesi dal terribile fatto di cronaca che sconvolse l’opinione pubblica. La pellicola fece grande scalpore soprattutto perché concedeva poco al romanzato, era una sorta di instant movie girato con tecnica da documentario. Gian Maria Volontè è molto bravo nei panni di un folle e insospettabile Piero Cavallero, un perfetto impiegato che si trasforma in spietato rapinatore. Volontè parla torinese, legge “Il riposo del guerriero” e rimprovera l’impiegata della sua azienda - copertura di indossare la minigonna (ma poi ci prova) e di farsi venire a prendere in auto dal fidanzato. Pare un cittadino perfetto dalla morale rigida e rispettabile, invece ha formato una banda insieme ad altri due incensurati impersonati da Don Backy (noto come attore del decamerotico e come cantante) e Piero Mazzarella, ai quali si aggiunge un giovanissimo Ray Lovelock, inserito nel gruppo perché ha scoperto il nascondiglio delle armi. Durante una rapina vediamo una giovanissima Agostina Belli, rapita come ostaggio e poi scaricata, ma fa in tempo a mostrare le gambe.


La parte fondamentale del film consiste nella folle rapina al Banco di Napoli, quando Lizzani ricostruisce una giornata qualunque che costò la vita a molti innocenti. Durante l’inseguimento della polizia vengono uccisi inermi passanti, colpiti da pallottole vaganti e dai banditi impazziti. La folla tenta di linciare uno dei rapinatori che viene catturato, il giovane Lovelock viene preso il giorno dopo a casa della madre e gli altri due (Volontè e Don Backy) sono braccati per giorni e alla fine catturati. Da citare la risposta del ragazzo al commissario Milian che lo interroga. “Cosa saresti voluto diventare nella vita?” E lui: “Un campione”. Il ragazzo era un buon calciatore e solo un malinteso senso di affermazione personale lo ha fatto diventare un malvivente. Piero Cavallero con la sua personalità folle e delirante ha plagiato i complici e li ha condotti su una strada senza ritorno. Il bandito impazzisce completamente al momento dell’arresto, sfoggia una carica logorroica che lo fa ridere senza motivo e confessare ogni crimine. Cavallero pensa d’essere un protagonista sotto la luce dei riflettori e risponde ridendo alle domande dei cronisti. La folla inferocita vorrebbe linciare i delinquenti che hanno ucciso vite umane e ferito innocenti. Volontè tratteggia con bravura la lucida follia di questo delinquente e il suo delirio di onnipotenza. Tomas Milian impersona il commissario, ma il suo personaggio è abbastanza anonimo e resta in secondo piano rispetto a un grande Volontè.


Un film da riscoprire, per apprezzare sequenze tipiche del poliziesco come inseguimenti, fughe, scontri tra auto, ma anche per vedere come sono cambiate le città e la delinquenza metropolitana.


dal mio libro: Tomas Milian, il trucido e lo sbirro - Profondo Rosso. Ordinabile a: ilfoglio@infol.it

giovedì 28 luglio 2011

Breve storia del cinema italiano - 6

Sesta Puntata
Roberto Rossellini


Le pellicole più importanti di Roberto Rossellini (1906 - 1977) testimoniano le sofferenze degli italiani dopo il 1943, in una terra invasa da alleati e tedeschi, distrutta, bombardata, tra cadaveri e miseria.
Roma città aperta (1945) è il primo film neorealista interpretato da Anna Magnani e Aldo Fabrizi, ispirato alla vera storia di don Luigi Morosini, un parroco del quartiere che protegge e aiuta i partigiani fucilato sotto gli occhi dei bambini. Roma città aperta non è soltanto un film simbolo del genere ma rappresenta un vero capolavoro, realizzato con pellicola scaduta e su set di fortuna per le strade di una capitale appena liberata. Molte scene del film (la morte di Pina) restano nella storia del cinema e non è azzardato sostenere che il cinema non è più lo stesso dopo Roma città aperta. La pellicola è ancora intensa e commovente nella sua semplicità che si oppone ad anni di retorica fascista per raccontare soltanto la verità. In Italia non viene capito perché sono male interpretate certe concessioni al melodramma popolare, ma nel 1946 la pellicola si aggiudica il festival di Cannes ed è un successo internazionale.


Rossellini gira Roma città aperta dopo aver realizzato diversi documentari e i lungometraggi La nave bianca e L’uomo della croce, due buoni film che non hanno la forza del suo capolavoro. Il desiderio di libertà e la fede nella resistenza emergono con prepotenza anche nel successivo Paisà (1946), sei episodi sull’avanzata degli alleati attraverso l’Italia girati con mezzi di fortuna e nell’immediatezza dei fatti narrati. Un film indimenticabile per i momenti di intensa commozione che il regista dissemina in una pellicola tragica e asciutta che racconta la realtà per immagini.


Roberto Rossellini afferma che il neorealismo rappresenta una maggiore curiosità per gli individui, un bisogno di presentare le cose come sono, di rendersi conto della realtà in modo concreto. Il neorealismo è la forma artistica della verità e oggetto di un film non può essere che il mondo, non il racconto. Un film neorealista deve far ragionare e andare al sodo, concedendo pochissimo allo spettacolare e al superfluo. Il neorealismo è soprattutto una posizione morale che diventa estetica, si propone di raccontare la realtà e di analizzare la vita evitando i luoghi comuni. Si parte dall’inchiesta documentaristica, rappresentando le cose come sono e da questo assunto si sviluppa il racconto. Il cinema per Rossellini ha compiti didattici, non deve raccontare sempre la stessa storia, ma deve insegnare a conoscersi e riconoscersi tra di loro.


Germania anno zero (1948) è il film che meglio rappresenta la poetica di Rossellini. Il regista compie la stessa operazione lucida e fredda delle pellicole ambientate in Italia, analizza il dopoguerra tedesco in una Berlino distrutta muovendo la macchina da presa tra le macerie della capitale. Il regista studia a fondo l’argomento di un film prima di realizzarlo, non inventa la pellicola in presa diretta, scrive la sceneggiatura insieme ai collaboratori, ma alla prima occasione la tradisce perché crede nell’ispirazione e non può farsi costringere dal soggetto. Il suo limite più evidente sta nella continuità, non ama le parti di raccordo, utili alla comprensione della storia, gira un film per una particolare scena ed è proprio là che focalizza la sua attenzione.


Rossellini consegna al cinema italiano altri ottimi film non completamente inseriti nel solco neorealista. Ricordiamo un apologo favolistico come La macchina ammazzacattivi (1952), bozzetto manieristico scritto da Eduardo De Filippo e accolto dal regista come un modo per educare brechtianamente gli spettatori.



Francesco giullare di Dio (1950) mette in scena i Fioretti e La vita di frate Ginepro per raccontare la vita di frate Francesco in undici episodi, senza alcuna concessione alla agiografia e alla celebrazione. La pellicola, sceneggiata da Federico Fellini e Brunello Rondi, approfondisce il tema della santità come anticonformismo, sincerità, ribellione e follia. Francesco è immaginato realisticamente ed è tutta qui la forza neorealistica di una pellicola fuori dagli schemi.  L’insegnamento neorealista è evidente in un racconto dove l’opera d’arte non è nulla, ma la realtà è tutto e si cerca di far capire la possibilità di una rivoluzione individuale.



Rossellini si ricorda anche per Il generale Della Rovere (1959) interpretato da un ottimo De Sica nei panni di un vigliacco costretto a diventare eroe, ma soprattutto per Era notte a Roma (1960), un ritorno ai temi della resistenza che rappresenta una condanna senza retorica della guerra.



lunedì 25 luglio 2011

In Genere Cinema parla del mio libro!


Gordiano Lupi ritorna alla genesi del nostro cinema del terrore per firmare il primo volume di un progetto editoriale che mira a ricostruire, all’interno di sei libri con uscite cadenzate due volte all’anno, una Storia del cinema horror italiano.
Si parte dal gotico, in questo volume uno, per spingersi ad affrontare il dittico Argento-Fulci, Joe D’Amato, per poi passare all’horror anni ’70 e ’80, per finire con gli ultimi strascichi di un’industria in crisi e la rinascita del Genere ad opera dei nostri sempre più apprezzati registi indipendenti. L’opera di Lupi sottotitola, infatti, “da Mario Bava a Stefano Simone”; e se sul primo non dovrebbero più servire chiarimenti di sorta, l’altro, autore del lungometraggio Una vita nel mistero [2010], fa parte della fresca generazione di registi indie che decidono, con sempre maggiore cognizione tecnico-artistica, di puntare sul Genere.
Gordiano Lupi si muove, come sempre, in maniera ordinata e puntigliosa all’interno della sua Storia del cinema horror italiano, proponendo una suddivisione per autore lì dove ci si trovi di fronte ad un regista particolarmente impegnato all’interno del Genere trattato [in questo caso il gotico], oppure capitoli più corposi in cui, tramite una suddivisione in paragrafi monografici, si affrontano in maniera più leggera autori che hanno bazzicato in maniera più saltuaria l’habitat perlustrato.
Le analisi critiche, nello stile di Lupi, si dipanano in una presentazione storico-biografica [più o meno articolata] dell’autore preso in considerazione, per poi passare all’analisi del film [un’approfondita sinossi con annesse descrizioni di scene], alla critica dell’autore e all’aggiunta di altri commenti raccolti da fonti autorevoli. In alcuni casi [grazie all’aggiunta di dichiarazioni di addetti ai lavori] si conclude con aneddoti e curiosità non banali e sempre inerenti.
Come già anticipato, l’autore si propone, all’interno del primo volume, di inquadrare il nostro cinema gotico all’interno di circa duecento pagine, affrontando con la dovuta cura autori fondamentali come Mario Bava, Riccardo Freda e Antonio Margheriti, senza però dimenticare autori meno votati al Genere [tra cui Polselli, Mastrocinque, Siciliano, Zurli] che, nel bene o nel male, firmarono col sangue il nero quaderno del nostro cinema di paura degli albori.

Si parte, dunque, con I vampiri [1957] di Riccardo Freda, puntellando la storiografica nozione di un ectoplasmatico Il mostro di Frankenstein [Eugenio Testa, 1920], di cui non rimane nulla di concreto, per poi arrivare all’amico e collaboratore Mario Bava, che con il suo La maschera del demonio [1960] dà vita ad un immortale lavoro del nostro cinema di Genere, che ancora gli vale l’appellativo di “padre dell’horror italiano”.  Ma balzando da un film all’altro, da un autore all’altro, c’è il tempo per raccogliere informazioni utili a costruire un ritratto filmico della più grande delle nostre scream-queen, la signora delle tenebre Barbara Steele, protagonista assoluta [molto spesso in ruoli doppi e ambigui] del gotico italiano.
Accanto alla storie di fantasmi, vampiri e presenze riconosciute con più facilità nel target del gotico, Lupi ci accompagna anche in un viaggio [molto spesso oltre tombale] attraverso titoli che legavano la nostra tradizione peplum al nuovo sottogenere: largo dunque ai vari Ercole al centro della Terra [Mario Bava, 1961], Maciste all’inferno [Riccardo Freda, 1962], Ercole contro Moloch [Giorgio Ferroni, 1964], Maciste contro il vampiro [Giacomo Gentilomo, 1961].
La struttura del volume dà spazio ad un’analisi più rapida delle incursioni sui generis di Elo Pannacciò [Il sesso della strega, 1973; Un urlo nelle tenebre, 1975], o a quel raro episodio, considerato da Max Giusti come “uno degli oggetti più strani del cinema italiano”, della carriera di Luciano Ricci e Lorenzo Sabatini che è Il castello dei morti vivi [1964].
Ottima intuizione quella di dedicare un capitolo, Tra Generi e impegno, ai film classificabili come non propriamente horror, pur annoverando al loro interno tematiche ed elementi affini: troviamo al suo interno approfondite schede su film atipici come Il demonio [Brunello Rondi, 1964] e L’ultimo uomo sulla Terra [Ubaldo Ragona, 1964].
A concludere il primo succoso volume una serie di interviste, firmate da Emanuele Mattana del portale www.sognihorror.com, a tre degli sceneggiatori più famosi del nostro cinema di Genere: Antonio Tentori, Dardano Sacchetti [i cui racconti trovano spazio anche nel capitolo dedicato a Bava] e Ernesto Gastaldi.

Luca Ruocco

Autore: Gordiano Lupi
Editore: Edizioni Il Foglio [http://www.ilfoglioletterario.it/]
Pagine: 224
Illustrazioni-Foto: /
Costo: 15,00 euro

Fonte: http://www.ingenerecinema.com/index.php?option=com_content&view=article&id=305%3Astoria-del-cinema-horror-italiano-vol1-di-gordiano-lupi-&catid=35%3Alibri&Itemid=55

mercoledì 20 luglio 2011

Breve storia del cinema italiano - 5

Quinta Puntata
Il neorealismo

Il neorealismo cinematografico nasce dopo la seconda guerra mondiale e consiste in un’analisi disincantata della realtà, un’interpretazione della vita senza svolazzi romantici. I film neorealisti non devono essere documentari, ma documenti di un’epoca girati da registi che provengono dalla scuola documentaristica.

Cesare Zavattini

Cesare Zavattini è il teorico del movimento con il film inchiesta Amore in città e il successivo I misteri di Roma, ma fanno parte del neorealismo anche molti lavori di Rossellini, Antonioni, Maselli, Zurlini, Risi, Pontecorvo, Lizzani ed Emmer. Si tratta di un realismo all’italiana, di grande coscienza sociale, che guarda alla storia collettiva, mostra i partigiani, i reduci, le mondine e la povera gente che soffre.



I film neorealisti sono film corali all’interno dei quali l’individuo si annulla e vengono interpretati da attori sconosciuti, per scelta stilistica e perché i divi del fascismo non possono caratterizzare un mondo nuovo. Nel dopoguerra mancano i teatri di posa, i film neorealisti vengono girati sul campo, tra le macerie, riprendono un’Italia da ricostruire e scavano tra le ferite della gente che soffre. Si tratta di film semplici ma profondamente veri, capaci di rompere con il realismo precedente perché inseriscono un insolito elemento critico che mostra dolori e sofferenze e si sforza di trovare i rimedi.

Leo Longanesi

“Bisogna scendere nelle strade, nelle caserme, nelle stazioni: solo così potrà nascere un cinema all’italiana”, scrive Leo Longanesi nel 1935 su L’italiano. Cesare Zavattini raccoglie la provocazione e sostiene la teoria del pedinamento, la macchina da presa che segue un uomo per strada e lo accompagna nei suoi incontri, filmandone la vita quotidiana e creando la storia. Tutto può produrre cinema, secondo la teoria di Zavattini, non servono grandi eventi, ma la vita di tutti i giorni è la sola cosa che conta da trasformare in spettacolo per il grande schermo. “Dateci un fatto qualsiasi e noi lo sviscereremo fino a farne cinema” afferma lo sceneggiatore di Miracolo a Milano.


Il neorealismo ha precursori importanti in alcune pellicole precedenti di Alessandro Blasetti (l’epopea garibaldina di 1860), Luchino Visconti (Ossessione). Mario Camerini e Francesco De Robertis (Uomini sul fondo).

Molti film dialettali anticipano il neorealismo e lanciano attori come Anna Magnani e Aldo Fabrizi, ma soprattutto tante pellicole scritte da Zavattini, Fellini e Amidei, che saranno autori del cinema successivo. I primi registi del neorealismo sono Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Luchino Visconti. Ne parleremo...

sabato 16 luglio 2011

La ragazza dal pigiama giallo (1977)

Mogherini e il giallo all’italiana


Mogherini si ricorda per aver girato un thriller di buona fattura come La ragazza dal pigiama giallo (1977), interpretato da Ray Milland, Dalila Di Lazzaro, Michele Placido, Howard Ross (Renato Rossini), Mel Ferrer, Ramiro Oliveros ed Eugene Walter. Sceneggiatura del regista e di Rafael Sanchez Campoy, ispirata a un fatto realmente accaduto in Australia nel 1934. Il film è ambientato a Sidney.


   Un poliziotto in pensione (Milland) indaga sul caso del cadavere dal volto carbonizzato di una ragazza, ritrovato in un’auto sulla spiaggia. Unico indizio un pigiama giallo. Dalila Di Lazzaro (nei panni della bella Glenda) è il conturbante elemento erotico del thriller, si mostra  nuda in alcune sequenze hot e divide il suo amore tra un famoso chirurgo (Ferrer), un operaio (Ross) e un cameriere italiano (Placido). La storia della donna è narrata in flashback ed è il sale del giallo che vive di momenti alternati tra passato e presente. La bella Glenda si sposa con il cameriere italiano ma non riesce a restare fedele a un solo uomo e continua a mandare avanti le altre due relazioni. A un certo punto le muore un figlio neonato che poteva rivitalizzare un matrimonio in crisi, perché il marito aveva accettato l’idea di diventare padre. Il regista mostra in rapida successione le avventure amorose di Glenda, ricorda una storia dai contorni lesbici, inserisce nudi plastici e momenti di puro erotismo. Mogherini riesce a descrivere bene il carattere libertino di Glenda, ragazza olandese abituata a divertirsi, troppo diversa dal cameriere italiano, un meridionale che perde la testa per un amore sbagliato. Il giallo ruota attorno al pigiama, a un sacco di iuta e ad alcuni chicchi di riso. Il vecchio ispettore comprende tutto e per questo motivo viene ucciso, ma riesce ad affidare a una bambina un nastro dove ha inciso la storia del delitto. Il cameriere non uccide la moglie - qui sta la sorpresa finale - ma il delitto viene commesso dall’operaio, che mette la donna nel bagagliaio della sua auto e infine la brucia. Morirà anche il marito, travolto da un autobus, in un tragico finale al cimitero, davanti alla tomba del figlio, per sfuggire alla polizia.


   Mereghetti stronca senza pietà: “La sorpresa finale non basta a salvare un film sciatto e approssimativo, afflitto da caratterizzazioni penose, a cominciare da quella del glorioso Milland, all’epoca rimproverato per gesti e frasi volgari”.


   Non condividiamo. La pellicola è un giallo psicologico, molto morboso, a tratti crudo e violento, ma rientra a pieno titolo nella tradizione del thriller all’italiana. Molte scene estreme, soprattutto quella del cadavere immerso nella vasca di formaldeide, restano nell’immaginario collettivo. Problemi di censura per la sequenza girata in un motel che vede Glenda in fuga dal marito, ormai senza soldi, mentre si concede a due energumeni per cento dollari sotto gli occhi di un ragazzino. Ottime le scenografie, notevoli gli esterni australiani, tra cimiteri sul mare, gabbiani che volano sulla baia e spiagge renose. Le musiche di Riz Ortolani sono suadenti e intense, ma è ancora più importante la voce calda e sensuale di Amanda Lear che interpreta alcune canzoni della colonna sonora. Ottimi gli attori. Mel Ferrer è un impassibile amante calcolatore, Howard Ross uno spietato assassino vendicativo, Michele Placido un ingenuo cameriere italiano e Dalila Di Lazzaro una stupenda ribelle dagli occhi verdi. Ray Milland è un diligente ispettore in pensione, forse un po’ stereotipato, ma di gran classe. Regia ispirata che tiene saldamente in pugno le redini di un film girato in maniera moderna, a base di flashback, ricordi e parti oniriche. Da recuperare.

Gordiano Lupi

Per vedere alcune sequenze del film:

venerdì 15 luglio 2011

Per vivere meglio, divertitevi con noi (1978)

Flavio Mogherini e la commedia sexy


Flavio Mogherini (Arezzo, 1922 - Roma, 1994) è uno scenografo tra i più rappresentativi del cinema italiano, dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta. Firma oltre novanta film e la sua partecipazione al cinema peplum (Ulisse, Attila, Le fatiche di Ercole, Ercole e la regina di Lidia…) e ad alcune pellicole in costume (I tre corsari) è molto importante. Sono merito suo le minuziose ricostruzioni d’epoca e gli scenari affascinanti di opere come Era notte a Roma, La viaccia (Nastro d’Argento), Accattone, Mamma Roma, Cronaca familiare, La calda vita. Mogherini scenografo dà il meglio di sé nelle architetture fantastiche come ne Le fatiche di Ercole (1957) di Piero Francisci, ma anche nelle composizioni pop di film come Diabolik (1968) di Mario Bava. Il debutto alla regia avviene con Anche se volessi lavorare che faccio? (1972), una commedia divertente, una sorta di guardie e ladri del passato che dirige, scrive e sceneggia. Flavio Mogherini si ricorda soprattutto per aver fatto debuttare nel mondo del cinema l’attore di cabaret Renato Pozzetto con gli originali Per amare Ofelia (1974) e Paolo Barca, maestro elementare praticamente nudista (1975).

Renato Pozzetto

   Per vivere meglio, divertitevi con noi (1978) è commedia composta da tre episodi dotata di buoni elementi erotici, che segna il ritorno di Mogherini a dirigere Renato Pozzetto. Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto sono anche sceneggiatori di una pellicola che si salva per una regia ispirata, ma le storie non sono molto sofisticate.  

Flavio Mogherini

   Un incontro molto ravvicinato (Monica Vitti) racconta le vicissitudini di una contessa violentata per settantaquattro giorni da sette sherpa dell’Himalaya, ammalata di fallofobia, che guarisce dal trauma dopo l’incontro con un affascinante extraterrestre. Il tono è comico - fantastico, ma la recitazione sopra le righe di un’ottima Monica Vitti rende credibile una storia assurda. L’uomo venuto dallo spazio vuol sapere come si riproducono i terrestri, rifiuta proposte alternative e finisce nel letto della contessa, che non solo si sblocca dal trauma ma ci prende gusto. A questo punto veniamo a sapere che non si è trattato di un vero incontro ravvicinato ma era un trucco organizzato dal marito per far guarire la moglie. Il problema è che la contessa, innamorata persa del fascinoso extraterrestre, continua a non volerne sapere di far l’amore con il marito. Preferisce attendere un improbabile ritorno del marziano per rivederlo ancora.

Monica Vitti

   Il teorema gregoriano (Johnny Dorelli e Catherine Spaak) affronta il tema della gelosia e presenta il personaggio di un marito spinto dagli amici a mettere alla prova la fedeltà della bella moglie. L’ambientazione è provinciale, siamo in un imprecisato paese sul lago, scenario tipico di un romanzo di Piero Chiara. Dorelli è un assicuratore che ascolta i discorsi qualunquisti di un collega sul conto delle donne e comincia a tormentare sessualmente la moglie (Spaak) fingendosi un misterioso innamorato. Il marito tende diverse trappole alla donna, fa telefonate erotiche notturne, le regala una spilla di valore (che lei butta nel secchio), infine la ricatta con la finta storia del marito corrotto e la spinge ad accettare un appuntamento in albergo. La moglie acconsente, ma solo per far fuori definitivamente il persecutore a colpi di pistola. Il marito non muore, ma si ritrova all’ospedale a dover giustificare i suoi comportamenti dettati dalla gelosia, mentre la moglie finisce sotto processo e viene difesa da un bel legale che potrebbe concretizzare gli incubi del marito. Il tono della pellicola è da commedia degli equivoci, recitata con bravura dai protagonisti e girata con stile raffinato. Una stupenda Catherine Spaak garantisce un minimo di situazione erotica e si ricorda per uno strip al contrario in una bella mise composta da candida lingerie. Johnny Dorelli realizza una versione in salsa erotica del mito del dottor Jekill e Mister Hyde, perché finisce per vivere uno sdoppiamento della personalità.

Catherine Spaak

   Non si può spiegare bisogna vederlo (Renato Pozzetto, Milena Vukotic) racconta la storia di uno scommettitore che compra un cavallo con cui spera di fare soldi a palate. Il tono è surreale sin dalle prime sequenze quando vediamo un uomo salire le scale di un condominio con una sedia in mano per mettersi a vedere il film che il regista sta girando. Renato Pozzetto porta ancora una volta al cinema il suo personaggio da milanese ingenuo e spiantato, questa volta fissato con l’ippica e con le corse dei cavalli.

Milena Vukotic

   I primi due episodi sono pura commedia sexy di serie B, salvati in ogni caso da una regia raffinata, da attori di buona levatura e da storie che garantiscono un puro divertimento. Il terzo segmento è cabaret, commedia surreale, comicità alla Renato Pozzetto, originale e composta di momenti che sembrano pura improvvisazione.
   Un film da riscoprire per apprezzare la comicità genuina e la spontaneità di un cinema italiano ormai scomparso.

Gordiano Lupi

Per vedere la sigla iniziale: http://www.youtube.com/watch?v=YGcqnJGvrXw

Breve storia del cinema italiano - 4

Quarta Puntata
Cinecittà, la città del cinema


Cinecittà dista nove chilometri dal centro di Roma. I lavori per costruirla iniziano il 26 gennaio 1936 e gli studi vengono inaugurati  il 28 Aprile 1937, alla presenza di Benito Mussolini. La Direzione Generale per la Cinematografia viene affidata a Luigi Freddi, che ha l’idea di costruire Cinecittà come la più grande città del cinema in Europa, e per far questo affida il progetto all’ingegnere Carlo Roncoroni e all’architetto Gino Peressutti. I lavori interessano una superficie di seicentomila metri quadrati che viene adibita a sede di oltre settanta edifici e sedici teatri di posa. Cinecittà nasce come una vera e propria città del cinema con quarantamila metri quadrati di strade e piazze, oltre a trentacinquemila metri quadrati di giardini. Centinaia di operai, reparti tecnici, squadre che lavorano all’interno negli enormi stabilimenti per la produzione e realizzazione di film. La qualità e la quantità delle pellicole migliora velocemente, al punto che nel 1943 dopo solo sei anni di attività degli studi, vengono realizzati circa trecento lungometraggi. Il regime fascista prima ancora della nascita di Cinecittà aveva manifestato grande attenzione nei confronti del cinema, soprattutto per favorire la nascita di un’industria cinematografica nazionale nel momento del passaggio dal muto al sonoro,  assicurando protezione e risorse a un mercato dominato dalla majors americane, che dal 1925 in poi aprono filiali in Italia.


Nel 1926 nasce la Federazione Cinematografica Italiana, presieduta da Stefano Pittaluga, un abile produttore che come prima mossa chiede una legge a sostegno del cinema. Il primo intervento normativo è del 1927 e prevede la restituzione ai produttori della tassa sullo spettacolo (i cosiddetti ristorni), ma è dopo il 1930 che lo Stato incentiva davvero il cinema, definito da Mussolini “l’arma più forte”. Per una legge del 1931 vengono premiati i film secondo il successo di pubblico, viene incentivata la produzione di film spettacolari e di evasione. La legge favorisce i produttori più solidi che promuovono investimenti di lunga durata. Nel 1933 il fascismo istituisce i “buoni di doppiaggio” a difesa della produzione nazionale. Il meccanismo prevede che per ogni film nazionale realizzato un produttore ottenga tre buoni che esonerano dal pagamento della tassa sull’importazione di film stranieri. Nel 1934 nasce la Direzione Generale della Cinematografia, con a capo Luigi Freddi, un’organizzazione statale che coordina produzione, distribuzione ed esercizio, senza danneggiare l’industria privata. Alla base del provvedimento c’è anche la volontà di controllo del contenuto ideologico di un film. Dopo la nascita di Cinecittà, voluta dal regime e da Mussolini in prima persona, arriva la Legge Alfieri (1938) ad assegnare contributi ai film nazionali e premi alle opere più valide. Tutto questo serve a far aumentare la produzione italiana di film disimpegnati e di evasione e a porre limiti all’affluenza di prodotti americani con un tetto massimo di duecentocinquanta pellicole all’anno. In questi sciagurati anni, grazie anche a Eitel Monaco, direttore generale della cinematografia, la produzione rimane relativamente libera dall’influenza della politica. Va da sé che nel periodo 1939 - 1943 il cinema italiano è in espansione produttiva e tecnica, grazie soprattutto all’aiuto statale. Cinecittà produce divertimento ed evasione per un popolo che non vuol pensare ai drammatici eventi bellici. Il cinema diventa un “bisogno fondamentale” e un divertimento popolare a basso costo. L’armistizio porta al saccheggio di Cinecittà da parte dei tedeschi, che prima tentano di far risorgere un impossibile cinema fascista a Venezia, poi trasferiscono in Germania le attrezzature requisite.


Gli stabilimenti cinematografici sono semidistrutti dai bombardamenti e adibiti a campo profughi, ma la voglia di ricominciare è così tanta che le difficoltà vengono superate. Il 10 luglio 1944 nasce l’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini) che prende subito le distanze dall’autarchia fascista. Il cinema italiano aderisce al modello liberista e si ispira all’esempio hollywoodiano, pure se il pericolo maggiore è quello della colonizzazione. Per tenere testa alla grande aggressione americana l’unica strada percorribile sarebbe quella di creare una sorta di unione cinematografica europea. Idea che rimane un’utopia irrealizzabile e si concretizza solo in singoli accordi con Francia e Spagna per piccole produzioni. Il cinema italiano del dopoguerra per sopravvivere ha bisogno dell’aiuto statale, pure se la contropartita è spesso rappresentata da una limitazione della libertà di espressione e da una pesante censura. In ogni caso non mancano produttori coraggiosi che finanziano progetti scomodi e osteggiati dalla censura. La prima legge repubblicana sul cinema (1945) sancisce l’importante petizione di principio: “L’attività di produzione è libera” e concede contributi ai produttori di film nazionali. I limiti autarchici fissati dal monopolio cadono e, appena vengono a mancare le restrizioni alle importazioni, arriva in Italia un’invasione di pellicole americane, prima proibite nelle sale. Il pericolo di colonizzazione è enorme ed è pure incentivato dagli Stati Uniti che vorrebbero un cinema in balia delle leggi di mercato. Per fortuna questa tesi non trova l’appoggio del governo italiano che salva Cinecittà con la Legge Cappa (1947), che impone alle sale un minimo di ottanta giorni l’anno riservati alla programmazione italiana e conferma un contributo ai produttori di film nazionali. Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del consiglio dal 1947 al 1953, orienta la sua politica per assicurare al governo il controllo ideologico della cinematografia nazionale. Durante questo periodo la legge sulla programmazione obbligatoria viene elusa impunemente e il governo se ne disinteressa. Il cinema americano diventa una vera e propria minaccia per Cinecittà che stenta a decollare ed è per questo motivo che Andreotti studia il meccanismo del “prestito forzoso”. La legge del 1948 introduce una sorta di tassa per ogni film straniero importato, da versarsi in un fondo destinato al finanziamento della produzione nazionale. Risorge dalle ceneri un sistema di assistenzialismo economico e di controllo politico, tipico del regime fascista, basato su una riesumazione di vecchie normative. La produzione italiana si intensifica, grazie ai fondi della Legge Andreotti, pure se proliferano le avventure produttive che hanno come unico scopo quello di assicurarsi i contributi. Lo Stato ha la grande colpa di non controllare la qualità delle operazioni, che si moltiplicano a dismisura visto che i contributi garantiti per legge assicurano sempre un guadagno. A metà degli anni Cinquanta scade la Legge Andreotti e, per colpa del vuoto normativo, c’è una crisi produttiva che investe molte case anche di un certo spessore come Lux, Minerva ed Excelsa. I produttori non rischiano più capitali propri ma attendono una nuova legge che fissi contributi statali e premi per la qualità artistica delle pellicole. Arriva la legge del 1956 che stabilisce contributi automatici per il cinema italiano, cento giorni l’anno di programmazione obbligata nelle sale e un prestito forzoso. La contropartita politica è rappresentata dai maggiori controlli di legge, visto che per ottenere i contributi un produttore deve presentare la sceneggiatura del film. Durante gli anni Cinquanta, Cinecittà prende per modello il cinema americano che è perfetto nei suoi meccanismi produttivi, ma si fa strada pure il modello “educativo” di stampo sovietico. Il cinema non deve essere solo industria, ma anche arte e cultura che diventa educazione al servizio del popolo, pure se dietro a questo paravento si nasconde una retorica inquietante. Tutto parte dall’idea ingenua che lo Stato possa essere davvero neutrale e soprattutto un buon giudice sulla qualità dei prodotti.


Nel primo dopoguerra, il cinema neorealista domina la scena e sforna molte produzioni spontanee ritenute educative. Film come Roma città aperta di Roberto Rossellini contendono il primato a Carmen di Christian-Jaque. A Cinecittà i generi vincenti sono il neorealismo, il musicale ispirato a opere e melodrammi famosi e il filone avventuroso o romanzesco. Nel 1947 con il boom dell’avanspettacolo, nasce il fenomeno Macario (Come persi la guerra di Carlo Borghesio) e poi il comico prende forza con Totò (Fifa e arena, Totò al giro d’Italia…), emarginando poco a poco il neorealismo. Alla fine degli anni Quaranta il neorealismo, che pure ha dato ottimi prodotti come Ladri di biciclette (1948) e Paisà (1946), può dirsi un’esperienza conclusa. Nascono i generi popolari, si fa strada il divismo (Totò, Macario, Anna Magnani) e  vengono prodotti i primi film spettacolari ad alto costo come Fabiola (1949) di Alessandro Blasetti. Un accordo produttivo con la Francia fa nascere film importanti come Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, interpretato dalla nuova diva Silvana Mangano. Riso amaro è un film che unisce il realismo a una narrazione ricca di effetti spettacolari. Catene (1949) di Raffaello Matarazzo con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, rivitalizza il melodramma ispirato al romanzo d’appendice.


Nascono i primi veri produttori del cinema italiano come Carlo Ponti, Dino De Laurentiis e Goffredo Lombardo, che contribuiranno alla nascita di un meccanismo industriale a imitazione del modello americano. A Cinecittà, sino alla metà degli anni Cinquanta, vengono prodotti solo melodrammi, commedie del neorealismo rosa (le serie Pane, amore e Poveri ma belli), pellicole popolari di largo consumo interpretate da divi come Amedeo Nazzari, Totò, Silvana Mangano, Sophia Loren e Vittorio De Sica. Tra il 1949 e il 1953 assistiamo a un rilevante sviluppo di Cinecittà che produce un gran numero di film. Il periodo di crisi legato allo scadere della Legge Andreotti (1954) è presto superato con la promulgazione di una nuova normativa e con il ritorno ai generi di largo consumo. Si girano commedie e film mitologici (nel 1957 Le fatiche di Ercole di Piero Francisci riscuote grande successo) che vanno incontro ai gusti del pubblico.


Nel 1958 i film americani diminuiscono la loro presenza sul territorio nazionale e l’Italia è il paese europeo più progredito e meglio attrezzato nel settore cinematografico. Gli studi di Cinecittà, adibiti a campo profughi nell’immediato dopoguerra, riaprono nel 1948 per girare Fabiola di Alessandro Blasetti. Negli anni Cinquanta, Cinecittà, grazie ai capitali statunitensi, diventa una sorta di Hollywood sul Tevere e le sue potenzialità vengono utilizzate per la costruzione di grandi set come quelli di Quo vadis? (1951), diretto da Mervyn LeRoy, o di Ben Hur (1958), diretto da William Wyler. Cinecittà ospita le cosiddette runaway productions (produzioni in fuga) che decidono di venire a girare in Italia sfruttando gli studi organizzati, il buon clima e il basso costo della manodopera. Tutto questo fa aumentare i costi al cinema italiano e occupa per mesi gli studi di Cinecittà, estromettendo di fatto le produzioni italiane. Però le runaway productions portano anche effetti benefici all’obsoleta struttura artigianale del cinema italiano. I produttori italiani cominciano a pensare a un mercato internazionale, tanto che Ponti e De Laurentiis realizzano un buon numero di pellicole con la collaborazione americana. Ulisse (1945) di Mario Camerini, L’oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, Barabba (1961) di Richard Fleischer (1961). Il cinema italiano cresce e nei primi anni Sessanta le pellicole più viste sono di produzione nazionale. Resta il problema della distribuzione che è sempre gestita dalle majors e poi il fatto che non esiste un vero accordo co-produttivo con gli statunitensi.


La fase terminale degli anni Sessanta e tutti i Settanta si caratterizzano per una stanchezza creativa che porta al fenomeno della vampirizzazione del cinema d’autore, da un film “importante” nascono molti sottoprodotti commerciali e addirittura dei sottogeneri. Possiamo citare l’esempio del Decameron di Pasolini che dà vita a una ridda di decamerotici, film divertenti e simpatici ma spesso girati in meno di una settimana. I film western di Sergio Leone fanno nascere il genere degli spaghetti - western che fornisce anche prodotti di ottimo livello. Si affermano i generi popolari come la commedia sexy, l’horror gotico, i film legati alla popolarità di un singolo attore (Lando Buzzanca), o alla bellezza di determinate attrici (Edwige Fenech, Gloria Guida…).

Verso la fine degli anni Settanta con l’arrivo di Gola Profonda nasce una produzione autoctona dedicata al porno. In ogni caso il cinema americano resta sempre un modello inarrivabile di riferimento e la collaborazione tra cinematografie europee non è che sporadica e saltuaria. Gli anni Ottanta vedono  un progressivo e inesorabile calo di spettatori, il cinema è in crisi. Sociologi, opinionisti, giornali e riviste cercano di analizzare il fenomeno: l’aumento del prezzo del biglietto?  la crescita dell’offerta televisiva?  la paura di uscire di casa a causa di un aumento della violenza? L’arrivo delle nuove tecnologie come il VHS? Solo gli spettatori più motivati e benestanti resistono, mentre il consumo popolare si indirizza verso la televisione, media a buon mercato e di facile fruizione. Le sale periferiche di seconda e di terza visione chiudono sotto i colpi dei film in televisione che proliferano senza sosta.


La televisione modifica il consumo delle pellicole e la fuga dalle sale risparmia solo il pubblico giovane, più sensibile al fascino della nuova pellicola da vedere sul grande schermo. Gli anni Novanta vedono l’affermarsi del modello blockbuster d’importazione americana, un cinema che punta il tutto per tutto sull’evento, costruito facendo ricorso a tutti i mezzi pubblicitari disponibili, sulla novità da sfruttare nel più breve tempo possibile. Il pubblico giovane del cinema odierno risponde a un richiamo forte che solo il cinema americano sa creare con prodotti di alta forza spettacolare. Il cinema italiano annaspa tra mille difficoltà, si riesuma la Legge Corona del 1965 che aveva cercato di lanciare una ciambella di salvataggio istituendo il circuito dei locali d’essai, a prezzi popolari, che non è sufficiente ad arginare la crisi. Tanto più che un vero circuito d’essai nasce solo dopo il 1980 e rimane confinato a una ristretta cerchia di esercenti e fruitori. L’articolo 28 della Legge Corona del 1965 istituisce un fondo per i film ispirati a finalità artistiche e culturali, ma è solo un palliativo perché i criteri di selezione sono blandi e non trasparenti.


Gli anni Novanta vedono la presenza devastante di due produttori come Rai e Fininvest che investono solo in pellicole che possono avere sfruttamento televisivo. Assistiamo a una presa di potere televisivo con relativa spartizione dell’etere legalizzata dalla legge Mammì. Soltanto la legge Veltroni del 1984 tenta di fare qualcosa per il cinema, pur con tutti i suoi limiti, soprattutto aprendo la strada alle multisale di periferia. Nata con grandi ambizioni sul modello di Hollywood, la nostrana fabbrica dei sogni non riuscirà mai a diventarne nemmeno una pallida  alternativa. La forte concorrenza americana, l’incapacità di trovare partnership stabili nel contesto europeo e un sottodimensionamento strutturale che necessiterà costantemente dell’intervento statale, non faranno decollare l’ambizioso progetto.