lunedì 30 aprile 2012

I due vigili (1967)

di Giuseppe Orlandini

Regia: Giuseppe Orlandini. Soggetto: Giorgio Bianchi. Sceneggiatura: Roberto Gianviti. Montaggio: Enzo Micarelli. Aiuto Regista: Massimo Castellani, Stefano Rolla. Fotografia: Benito Frattari. Costumi: Berenice Sparano. Arredamento: Carlo Gervasi. Musiche: Carlo Rustichelli. Direttroe di Produzione: Marcello Papaleo. Organizzatore generale: Nicolò Pomilia. Realizzato da Giorgio Bianchi per la Rizzoli Film. Interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Umberto D’Orsi, Franco Giacobini, Luciana Scalise, Rosita Pisano, Britt Garland, Mario Frera, Dada Gallotti, Vincenzo Maggio, Dominique Badon, Luca Sportelli, Anna Lelio, Giorgio Sciolette, Luciano Bonanni, Antonio Nardo, Mario Pennisi, Riccardo Franci, Armandino, Enrico Marciani, Valentino Macchi, Oreste Palella, Mario Cappuccio, Giuseppe Pollaci.

La scena della riunione politica segreta

I due vigili è una farsa senza pretese che si prefigge il solo scopo di divertire il pubblico, cercando di impartire un minimo di educazione stradale. La sigla di testa è un disegno animato stilizzato con alcune foto di Franco e Ciccio nel ruolo di poliziotti municipali, ma la trovata originale sono i nomi degli interpreti scritti in diagonale su strisce pedonali bianche. Vediamo semafori accesi, segnali di divieto di sosta e indicazioni di arresto di colore rosso che anticipano i nomi del cast tecnico. La pellicola caratterizza subito i ruoli: Franco Lo Cascio è l’inflessibile “bounty killer della polizia comunale” che multa tutti e non perdona nessuno, mentre Ciccio Merendino è “il tenerello”, sempre disposto a perdonare e a non far pagare le infrazioni. Franco e Ciccio sono due vigili urbani motorizzati, paragonati ai mitologici Castore e Polluce, tutori dell’ordine e custodi del codice della strada. Vediamo subito un comico processo a un automobilista reo di aver spernacchiato Franco (si era soffiato il naso) durante una multa. Alla fine il solerte avvocato dell’accusa finisce lui per fare le pernacchie a Franco quando lo multa per divieto di sosta. La pellicola va avanti come un contenitore di scenette da avanspettacolo, sembra una parodia de Il vigile (1961) di Luigi Zampa, soprattutto per la comica inflessibilità di Franco e quando abbiamo l’incontro con Isabella Biagini, che ricorda la scena Sordi - Koscina.  “Il codice della strada è il mio santo. Sono targato CdS: Codice della Strada”, afferma il comico siciliano. Multa la Biagini per bollo scaduto, una straniera, il collega Ciccio per uno stop non funzionante e persino il sindaco di Roma per divieto di sosta. La fortuna di Franco è che l’ospite inglese del sindaco gradisce la sua inflessibilità, così viene promosso e finisce su tutti i giornali. Da citare le ripetute battute di Franco nei confronti della fidanzata giudicata “troppo nuda”, una sorta di condanna della moda della minigonna.

Alcune sequenze stile fotoromanzo

Quando entra in scena Umberto D’Orsi, capitano dei vigili urbani multato da Ciccio che decide di diventare severo per avere lo stesso successo del collega, il film si vivacizza. I due vigili si fanno ingannare da una banda di rapinatori scortandoli verso la fuga invece di arrestarli. Vengono appiedati e affidati al 50° reparto, capitanato da Umberto D’Orsi che si vendica per la multa e per il ritiro della patente. Finiscono alla discarica a sorvegliare la nettezza urbana, vengono impiegati per far cessare schiamazzi nei condomini, seguono lavori stradali e devono andare nei quartieri poveri a riscuotere contravvenzioni. Si mettono sempre più nei guai denunciando alla moglie - senza volerlo - l’amante del capitano e subito dopo lo fanno sapere anche al marito della donna. Tra le scenette più divertenti ricordiamo la riunione politica segreta tra comunisti e cattolici sventata da Franco e Ciccio che credono di avere a che fare con malfattori. Finiranno in manicomio. Ancora più bella è la sequenza ambientata in borgata con Franco che mostra doti da attore drammatico quando si commuove di fronte a una famiglia di finti poveri e nasconde diecimila lire nel divano perché possano pagare la multa. Finirà male, nonostante le buone intenzioni, cacciato di casa e senza la somma dovuta. Franco e Ciccio si riscattano facendo arrestare la banda di rapinatori che avevano involontariamente aiutato. Il finale è da pochade, intriso di comicità slapstick con un buffo inseguimento tra un camion della nettezza urbana e i malfattori. La foto scattata per la stampa vede i nostri eroi coperti da immondizia ma raggianti per aver ritrovato il loro posto da vigili urbani motorizzati. “Di fiori ci coprono! Eroi siamo!”, dice Franco. Bellissima la battuta finale: “A me pare di essere quel pesce. L’alice nel paese delle meraviglie”. Solo Franco potrebbe pronunciare una simile freddura. La parola FINE è ripresa sotto un cartello di divieto di sosta. Molto originale.

I complimenti del sindaco di Roma

La poliziotta (1974) di Steno è debitrice di alcune situazioni legate a questa pellicola. La scena dei baraccati finto poveri si ripresenta con un’impietosita Mariangela Melato che si trova di fronte una famiglia molto numerosa. Pure l’inflessibilità del vigile, la multa al superiore, la vendetta nei confronti di una poliziotta affidata a compiti sempre più degradanti, sono desunti da I due vigili. Va da sé che le intenzioni sono ben altre e che La poliziotta resta un’ottima commedia con ambizioni di denuncia sociale. La poliziotta fa carriera (1976) di Michele Massimo Tarantini e i due sequel che verranno prodotti, invece, tornano sul piano della farsa spingendo sul versante sexy.

I due vigili

La critica non distrugge I due vigili. Paolo Mereghetti assegna una stella e mezzo: “La solita farsa, ma nella scena in cui visita i baraccati finto poveri Franchi rivela le sue potenzialità di grande attore drammatico”. Morando Morandini concede due stelle e arriva a tre per il giudizio del pubblico: “Nono film nello stesso anno. Ma l’esercizio fa il maestro e i due comici più lavoravano e più rendevano sciolta e spiritosa la loro recitazione”. Secondo il nostro conteggio nel 1967 i due comici siciliani girano solo otto film, ma va bene lo stesso, la catalogazione è sempre incerta. Conferma le due stelle anche Pino Farinotti ma si limita a riportare una sintetica trama.

La festa per la promozione di Franco

La pellicola è un contenitore di pubblicità indiretta: tutti bevono acqua Pejo e gli avventori dei bar ordinano Stock 84. Segno dei tempi. L’idea del film è del veterano Giorgio Bianchi (1904 - 1967), che muore senza vedere il prodotto finito, autore di commedie interessanti nel periodo 1940 - 1967. I suoi ultimi film da regista sono Assicurasi vergine (1967) e Quando dico che ti amo (1967). Il regista è Giuseppe Orlandini (1922), uno specialista alla guida della coppia sicula, dopo aver cominciato con la commedia sentimentale Tutti innamorati (1959), Lo squadrista (1962) e alcune commedie di poche pretese (La pupa, 1963 - La ragazzola, 1965 - Gli infermieri della mutua, 1969). Sono cinque i film diretti con protagonisti Franco e Ciccio: I due vigili (1967), I due crociati (1968), I due maggiolini più matti del mondo (1970), Il clan dei due borsalini (1971) e Continuavano a chiamarli… er più, er meno (1972).  

Per vedere alcune sequenze: http://www.youtube.com/watch?v=iRflcYLUKbU

Gordiano Lupi

venerdì 27 aprile 2012

Il mattatore (1960)

di Dino Risi

Regia: Dino Risi. Soggetto: Tratto da un racconto di Age (Agenore Incrocci) e Furio Scarpelli. Sergio Pugliese, Sandro Continenza, Ettore Scola, Ruggero Maccari. Sceneggiatura: Sandro Continenza, Ettore Scola, Ruggero Maccari. Produttore: Mario Cecchi Gori. Fotografia: Massimo Dallamano. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche: Pippo Barzizza. Scenografia: Giorgio Giovannini. Costumi: Marisa D’Andrea, Romolo Martino. Interpreti: Vittorio Gassman, Dorian Gray, Peppino De Filippo, Anna Maria Ferrero, Mario Carotenuto, Alberto Bonucci, Fosco Giachetti, Luigi Pavese, Linda Sini, Gianni Baghino, Vincenzo Talarico, Aldo Bufi Landi, Nando Bruno, Mario Scaccia, Armando Bandini. Nomination Orso d’Oro al Festival di Berlino (1960). Produzione: ITA/FRANCIA.


Il mattatore è una delle commedie più importanti degli anni Sessanta, contribuisce a lanciare Vittorio Gassman come attore comico e al tempo stessa detta le regole fondamentali della commedia all’italiana. La sceneggiatura sarà imitata a più non posso da molti autori della commedia sexy, della farsa scollacciata e in epoca contemporanea anche dai fratelli Vanzina. Il film è un contenitore di truffe e di personaggi, interpretati da un Vittorio Gassman (Gerardo) in gran forma, splendido malandrino e attore mancato. Dino Risi si sbizzarrisce nel girare una serie di scenette esilaranti, interpretate da attori come Peppino De Filippo (il truffatore Chinotto), Mario Carotenuto (il truffatore Lallo), la spalla per antonomasia Luigi Pavese (l’imprenditore Rebuschini), Fosco Giachetti (il generale Nesci), ma anche da due bellezze come Dorian Gray (Elena, la collega di Gerardo) e Anna Maria Ferrero (la moglie di Gerardo). Vediamo la mora Anna Maria Ferrero (nome d’arte di Anna Maria Guerra, ex compagna di Gassman, sposata con Jean Sorel dal 1962) mostrare le lunghe gambe in alcuni numeri di varietà, mentre la bionda Dorian Gray (nome d’arte di Maria Luisa Mangini, 1928 - 2011) amoreggia con Gassman in un letto matrimoniale. Sequenze audaci, visti i tempi.

La truffa dei finti poliziotti

Il contenitore di truffe comincia con un tentativo di gabbare Gerardo da parte di un imbroglione napoletano, al quale l’ex truffatore - redento dalla moglie - racconta una vita di prodezze.  Il film è un lungo flashback che parte con i fallimentari esordi teatrali, prosegue narrando la galera, l’amicizia con Chinotto, una serie di truffe organizzate insieme al compare e alla bella Elena, persino dei finti matrimoni per rubare collane di brillanti e diademi. Ricordiamo la truffa al gioielliere che riceve pasticcini in cambio di orecchini d’oro, ma anche l’inganno ai danni di un commerciante di pasta all’uovo che vorrebbe pagare una tangente a un generale per assicurarsi una fornitura per l’esercito. Chinotto è il maestro di Gerardo, conosciuto in carcere, amico inseparabile e una sorta di guida spirituale, ma l’allievo diventa così bravo da mettersi in proprio. La truffa finale è organizzata della futura moglie con la complicità di Chinotto, perché sposa Gerardo nel corso di una cerimonia che il compagno inconsapevole crede finta. Il marito si vendica, comunque, perché organizza un finto arresto da parte di un collega imbroglione che si spaccia prima per truffatore napoletano e poi per commissario di polizia. Fuga verso la libertà insieme a Chinotto e soci, verso nuovi obiettivi truffaldini. L’ultima scena è a colori, mentre il resto del film è girato in un intenso bianco e nero. I nostri eroi compiono una truffa internazionale: rubano i gioielli della regina d’Inghilterra.

L'incontro in treno con Luigi Pavese

Gerardo si realizza come attore, utilizza doti da scalcinato imitatore di voci e dialetti per organizzare colpi da maestro e deliziare una platea di lettori di cronaca nera. La sceneggiatura de Il mattatore segue un canovaccio simile a I tromboni (1956) di Federico Zardi, commedia interpretata da Gassman in teatro. Il film ricostruisce uno spaccato di storia italiana di fine anni Cinquanta, poco prima del Boom, raccontando piccoli sogni di famiglie borghesi, ambizioni legate al matrimonio, alla famiglia e al posto fisso. Il mattatore è anche il trionfo dell’arte di arrangiarsi, la messa in scena della truffa come sistema di vita, la spensieratezza contrapposta alla grigia tranquillità.

Un poco di erotismo in un ballo afrocubano

Paolo Mereghetti concede due stelle e mezzo: “Il film che segna l’incontro di Gassman con Dino Risi è una carrellata di caratteri e di situazioni in cui l’attore può mettere in mostra le proprie abilità mimetiche (particolarmente riuscito il travestimento da generale dell’aereonautica); ma è anche un ritratto cinico e spassoso della voglia di arricchirsi (e di divertirsi) alle spalle dell’ingenuità  nazionale, alle soglie del Boom. E infatti a pagare, alla fine, sono le aspirazioni piccolo-borghesi (lavoro fisso, stipendio, rispettabilità) della moglie di Latini, l’unico personaggio che sembra aver tradito le proprie origini precarie (faceva la soubrette in varietà di quart’ordine). Solo una furbata del produttore Mario Cecchi Gori l’omonimia con lo spettacolo televisivo che Gassman aveva condotto con successo nel 1959”. Pino Farinotti concede tre stelle ma si limita a registrare un breve riassunto della trama. Morando Morandini (tre stelle di critica e quattro di pubblico): “Commedia brillante, diretta con mano sicura da Dino Risi, è soprattutto un’esibizione dello strepitoso fregolismo di Gassman che passa da un personaggio all’altro”. A nostro giudizio un caposaldo della commedia all’italiana, un modello da imitare e da studiare per molti autori di cinema brillante. Il film è classificato opera di interesse nazionale, per questo motivo viene curata una versione restaurata che circola sui canali satellitari del circuito Sky. 

Una sequenza memorabile de Il mattatore - Gassman recita (da finto attore cane) Giulio Cesare di Shakespeare per i colleghi carcerati: http://www.youtube.com/watch?v=-tvYzjVzL44

Gordiano Lupi

giovedì 26 aprile 2012

Il gatto dagli occhi di giada (1977)

di Antonio Bido

Una vecchia locandina con Corrado Pani e Paola Tedesco

Regia: Antonio Bido. Soggetto: Vittorio Schiraldi, Antonio Bido. Sceneggiatura: Roberto Natale, Vittorio Schiraldi, Aldo Serio. Fotografia: Mario Vulpiani. Montaggio: Maurizio Tedesco. Musiche: Trans Europa Express. Scenografia e Costumi: Gianfranco Ramacci. Trucco: Giannetto De Rossi. Produttore: Gabriella Nardi. Interpreti: Corrado Pani, Paola Tedesco, Franco Citti, Fernando Cerulli, Giuseppe Addobbati, Gianfranco Bullo, Yill Pratt, Bianca Toccafondi, Inna Alexeivna, Paolo Malco, Cristina Piras, Roberto Antonelli, Gaetano Rampin, Giuseppe Pennese, Giovanni Vanini, Antonio Bido (cammeo come direttore del cabaret).

Un grido di terrore di Paola Tedesco

Roberto Poppi ne Il Dizionario del Cinema Italiano - I Registi fornisce qualche utile dato biografico per inquadrare Antonio Bido, nato a Villa del Conte (Padova) nel 1949, autore di cinque film, dal 1976 al 1991: Il gatto dagli occhi di giada (1977), Solamente nero (1978), Barcamendoci (1984), Mak 100 (1987) e Blue Tornado (1991). Bido è un cineamatore che realizza un Tom Sawyer in 8 mm nel 1962, dirige film sperimentali e indipendenti (Dimensioni, 1970 e Alieno da, 1971), un mediometraggio per l’esercito (Ventiquattro mesi, 1972), documentarista e infine aiuto di Giuseppe Ferrara (Faccia da spia, 1975), con cui collabora dal 1972 al 1980. Il suo film più noto resta il thriller con cui debutta nel 1977, divenuto per gli appassionati un piccolo cult-movie. Interessanti anche il giallo Solamente nero, interpretato da Stefania Casini e Lino Capolicchio, l’ironico Barcamenandoci, con i protagonisti intenti a costruire una barca per fuggire dalla realtà, e il sentimentale Mak Pi greco 100, interpretato da Rosita Celentano, Ray Lovelock, Erika Blanc, ambientato nella zona di Livorno tra i militari dell’Accademia Navale. Negli anni Ottanta, Bido realizza pellicole per le forze armate e il film per la tv Aquile (1989), mentre la sua ultima opera è Blue Tornado (1991), firmata con lo pseudonimo di Tony B. Dobb, dove imita Top Gun e cerca di fare cinema fantastico con risultati modesti.

L'affascinante Paola Tedesco

Il gatto dagli occhi di giada è un thriller diretto dall’esordiente Antonio Bido, che rende un tardivo omaggio a Dario Argento con un titolo zoologico che ricorda L’uccello dalle piume di cristallo (1970), Il gatto a nove code (1971), Quattro mosche di velluto grigio (1971), ma anche lavori di Lucio Fulci come Una lucertola dalla pelle di donna (1971). Il titolo ha un collegamento con la pellicola solo per i ridicoli occhi gialli dell’assassino che ricordano il colore della giada. Tecnicamente siamo di fronte a un giallo, che - come tutti i gialli all’italiana - risulta caratterizzato da momenti di efferatezza ed è costellato di omicidi estremi. Bido cavalca una moda, ma soprattutto cerca di ispirarsi e di citare maestri come Argento, Martino e Fulci in un thriller ad alta tensione che svela il colpevole soltanto nelle ultime sequenze. Il film è ambientato in gran parte a Roma, dove l’affascinante attrice di cabaret Mara (Paola Tedesco) assiste all’omicidio di un farmacista. Siamo soltanto all’inizio, perché il killer perseguita la ragazza, convinto di essere stato visto e deciso a eliminarla. Mara incontra Lukas (Corrado Pani), una vecchia fiamma del passato, che si improvvisa detective e alla fine scopre il mistero. Franco Citti è il sospettato numero uno, perché condannato ingiustamente da una giuria popolare, mentre il killer uccide proprio i componenti di quella corte. Sarebbe troppo semplice, infatti nel rocambolesco finale scopriamo che un giudice ebreo ha vecchio motivi di rancore verso un gruppo di delatori fascisti (riuniti da lui nella giuria), colpevoli di aver mandato a morire i suoi familiari. Il figlio è l’esecutore materiale dei delitti e nelle sequenze finali viene ucciso dal padre, che - pentito di aver allevato un mostro - subito dopo si toglie la vita. Atmosfere inquietanti, musica eccellente dei Trans Europa Express che anticipa il tema di Suspiria dei Goblin, soggettive dell’assassino che omaggiano Argento e Martino, macabri omicidi alla Profondo rosso ripresi con dovizia di particolari, una storia ben sceneggiata che tiene in tensione sino alla fine. Tutti pregi che devono fare i conti con una struttura convenzionale e con un montaggio non sempre serrato, come tradizione del thriller italiano.


Paolo Mereghetti assegna una stella e mezzo: “Un film che si inserisce senza troppa fantasia nella serie dei thriller italiani di quegli anni, ma le occasionali atmosfere inquietanti sono rovinate da trovate ridicole. Ed è opinabile tirare in ballo l’Olocausto per la soluzione del giallo”. Morando Morandini è più in sintonia con la nostra valutazione (due stelle di critica e tre di pubblico): “Thrilling alla Dario Argento che riesce a creare la tensione drammatica con l’artificio di trucchetti noti, ma di indubbio effetto, toccando qua e là alcuni temi sociali più impegnativi. Interpreti buoni”. Pino Farinotti conferma le due stelle senza avventurarsi in giudizi critici. Marco Giusti su Stracult è abbastanza obiettivo: “Opera prima di Antonio Bido. È una sotto - argentata complessa con un giudice che vuole eliminare i delatori che hanno portato allo sterminio della sua famiglia ebrea nei campi di concentramento. Allora funzionò abbastanza bene”. Rivisto su Iris - la televisione digitale di Mediaset - il 24 aprile 2012, garantisco che funziona ancora molto bene e che non è per niente invecchiato.

Un omicidio efferato

Il gatto dagli occhi di giada ha una versione nordamericana (Watch Me when I Kill) distribuita da Herman Cohen - con una diversa scena iniziale -, tedesca (Die Stimme des Todes), svedese (Katten Med Stengat) e danese (Kattens Ofre).

Corrado Pani

Ottimi gli attori. Corrado Pani è un convincente investigatore privato, Paola Tedesco una bella attrice di cabaret, che non perde occasione per mettere in mostra le lunghe gambe grazie a ridotti costumi di scena, Franco Citti un ottimo sospettato numero uno. Nel cast anche il fulciano Paolo Malco e lo stesso Antonio Bido recita un piccolo cammeo, come farà anche in Solamente nero

Per vedere il film integrale: http://www.youtube.com/watch?v=KSBEp6ngpyY

Gordiano Lupi

domenica 22 aprile 2012

Al lupo al lupo (1992)

di Carlo Verdone


Al lupo al lupo è un film di Carlo Verdone che si vede sempre con piacere, perché inserisce la giusta dose di sentimento in una commedia garbata che ricorda certi lavori di Mario Mattòli. La trama è molto semplice. Vanni (Rubini), Gregorio (Verdone) e Livia (Neri), tre fratelli molto diversi tra loro, dopo un passato di invidie, bisticci e recriminazioni si ritrovano quando il loro padre Mario (Morse) - scultore, pittore e poeta famoso - sparisce all’improvviso costringendo i figli a mettersi sulle sue tracce.

La bellissima Francesca Neri

Un film on the road, fotografato in maniera eccelsa da Danilo Desideri che immortala le spiagge della Maremma (Capalbio, Punta Ala), le colline senesi (Bagno Vignoni e la vasca termale) e la città di Siena in tutta la loro sfolgorante bellezza. Un film di caratteri, ben scritto e sceneggiato da due decani della commedia all’italiana come Benvenuti e De Bernardi, aiutati da Filippo Ascione, ma anche dai ricordi d’infanzia di Carlo Verdone. La forza della storia è lo scontro dei caratteri tra fratelli, interpretati magnificamente da Rubini, Verdone e Neri. Rubini è il genio di famiglia, il ricco e affermato pianista che è sempre stato la gioia del padre. Verdone è la pecora nera, il disc-jockey in perenne bolletta, privo di senso pratico, arruffone, ma simpatico. Neri è la donna in crisi che vorrebbe lasciare un marito che non sopporta, ha un amante, ma non sa decidere perché non vuole perdere la figlia. Il contrasto più forte è tra il preciso e concreto Rubini e lo strampalato e folle Verdone, gelosi l’uno dell’altro, che alla fine scopriranno di volersi bene e di potersi dare qualcosa l’uno con l’altro.


Verdone procura una donna a Rubini, imbranato per quanto geniale, e lo fa divertire nella sua discoteca, ma al tempo stesso deve riconoscere che il fratello è davvero un grande pianista. I tre caratteri contrastanti danno vita a una commedia garbata quando insieme partono alla ricerca del padre avendo come traccia soltanto una poesia: “Vorrei poter un giorno morire senza morte/ sotto le cascate bianche che vita infusero alle mie mani/ per vivi corpi e forme alate/ che non amerò più”. Lo ritrovano, dopo aver ascoltato il consiglio della vecchia amante (Mercader), in una baita di montagna dove si è ritirato in attesa della morte. “C’è stato un tempo in cui ho creduto di essere immortale, ma adesso so che non è vero”, dice il vecchio genitore.

Sergio Rubini, imbranato ma geniale pianista

Il film si conclude - in maniera molto poetica - con il padre che fa il ritratto dei propri figli ma li disegna come quando erano bambini. Amore tra fratelli, gelosie, amore filiale e paterno, sono i grandi temi di una commedia dolceamara che non invecchia ma si rivede con piacere. Attori ben calati nelle rispettive interpretazioni. Francesca Neri è al culmine della bellezza, la vediamo in alcuni fugaci nudi, ma quando conversa nel bagno termale insieme ai fratelli è forse la sua immagine più sexy, fotografata con garbo ed eleganza. Rubini e Verdone sono perfetti nell’interpretazione di due fratelli così diversi tra loro e di fatto incompatibili.

Carlo Verdone: attore, regista, soggettista e sceneggiatore

Nel film recita un breve cammeo anche Maria Mercader (1918 - 2011), attrice spagnola moglie di Vittorio De Sica, madre di Christian De Sica e Manuel De Sica, consuocera di Carlo Verdone. Questo è il suo ultimo lavoro. Christian De Sica (cognato di Verdone) appare per pochi secondi ed è un ballerino nella discoteca di Gregorio. Il regista americano Wes Anderson considera Al lupo al lupo tra le sue pellicole preferite degli anni Novanta. Il treno per Darjeeling (2007), girato da Anderson, è pieno di riferimenti al lavoro di Verdone, racconta una storia simile, basata sulla ricerca di un genitore da parte di tre fratelli diversi tra di loro. Consigliato per apprezzare un Verdone ispirato e capace di concedere sprazzi di vera poesia.

Per vedere alcune sequenze: http://www.youtube.com/watch?v=i8sg1_C8GzA&feature=related (l'arrivo alla casa al mare) - http://www.youtube.com/watch?v=lcmxc9Wh28A&feature=related (in discoteca)

Gordiano Lupi


sabato 21 aprile 2012

Le tardone (1963)

di Marino Girolami

La copertina del dvd Hobby & Work (2012)

Regia: Marino Girolami (Wilson Fred) e Javier Setó. Soggetto e Sceneggiatura: Tito Carpi, Walter Chiari, Roberto Gianviti, Marino Girolami, Paulino Rodrigo, Giulio Scarnicci, Amedeo Sollazzo, Renzo Tarabusi, Beppo Costa, Menduri, Fabio Dipas. Fotografia: Mario Fioretti. Musica: Carlo Savina. Scenografia: Saverio D’Eugenio. Costumi: Giulia Deriu. Montaggio e Aiuto Regia: Enzo G. Castellari. Direttore di Produzione: Carlo Moscovini. Produzione: Marino Girolami per Marco Film. Interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Ave Ninchi, Didi Perego, Walter Chiari, Raimondo Vianello, Enio Girolami, Carlo Pisacane, Liù Bosisio, Mario De Simone, Grazia Maria Spina, Luigi Pavese, Gloria Paul, Marco Mariani, Franca Marzi, Paquita Rico, Gabriele Tinti, Julio Peña, Lina Volonghi, Giulio Marchetti, Annie Gorassini, Franco Volpi, Kiko (José Luis Carbonell), Umberto D’Orsi, Julio Peña.  Canzoni: Alla mia età (Rita Pavone), La mezza luna (Celentano), Come noi (Tony Dallara), C’è una leggenda (Nico Fidenco), Ay que calor (Ennio Sangiusto). Interni: In. Ci. R. De Paolis. 

I flani al cinema

Le tardone sono quelle donne di mezza età che non disarmano, lottano contro il tempo, non hanno perso la voglia di lottare e di mettersi in gioco per amore. Il regista tratta con affetto la donna non più giovane e avverte il pubblico (con una sovrimpressione che scorre su audaci bikini di ragazzine) che non intende fare satira contro di loro, ma trattarle come eroine. Le tardone è una commedia in cinque episodi, non molto uniformi tra loro, che oscillano tra la commedia sentimentale, la farsa, la pochade e persino il dramma romantico - esistenziale.

La locandina al cinema

La svitata vede la tardona Didi Perego cadere nella rete sentimentale di Enio Girolami, complice di un crudele scherzo organizzato da un gruppo di amici capitanato dalla perfida Liù Bosisio. Nel cast dell’episodio troviamo anche Carlo Pisacane, comico vecchietto in preda a calori erotici che non disdegna ragazzine e tardone. Didi Perego è molto brava nel tratteggiare il profilo di una donna ingenua, romantica, credulona, sbeffeggiata da tutti, ma che in fondo sa prendere la vita con il sorriso sulle labbra. L’episodio, scritto da Roberto Gianviti, è una commedia sentimentale di taglio balneare, che comincia con tono leggero ed evolve in commedia romantica. Neorealismo rosa che va a braccetto con la commedia balneare di Luciano Emmer (Domenica d’agosto, 1949). Molti bikini audaci, inquadrature di belle ragazze al mare e in piscina, unico modo consentito dalla censura per mostrare al cinema qualche bella ragazza. Enio Girolami comincia per scherzo e finisce con l’innamorarsi della svitata Didi Perego. Girolami anticipa la commedia vanziniana stile Sapore di mare, per i temi affrontati e perché sullo sfondo delle vacanze sul litorale romano scorrono le note di alcune canzoni alla moda.

Alcune sequenze del film versione fotoromanzo

Un delitto quasi perfetto vede la tardona Ave Ninchi moglie sfortunata dell’attore spagnolo Kiko, che mira all’eredità mentre se la spassa con le bella Grazia Maria Spina. Il problema è che la moglie lo distrugge con le manie sportive e non gli concede tempo da passare con la giovane amante. Per questo Kiko affida ai due veterinari Franco Franchi e Ciccio Ingrassia il compito di uccidere la moglie, visto che sono esperti nel sopprimere animali. “Mia moglie è una belva”, si giustifica il marito. “Ma questo è un ippopotamo!”, ribatte Franco. Il secondo episodio è una farsa divertente e ben interpretata dai due improbabili killer e da un’irresistibile Ave Ninchi. Grazia Maria Spina mostra le lunghe gambe in un paio di audaci sequenze a rischio censura perché non c’è la scusa del mare, ripresa sul proprio letto in slip e camicetta. Molte battute sono tratte dal repertorio del vecchio avanspettacolo. “Lavoriamo a pronta cassa”, dice Franco. “Appena è pronta la cassa io pago”, ribatte il marito. “Avete un piano?”, chiede Kiko. “No, solo una chitarra”, ribatte Franco. Alcune parti sono pura comicità slapstick, da cinema muto, come il rapido dialogo tra Franco e Ciccio prima di accettare l’incarico di uccidere la moglie. L’episodio va avanti con parti di comicità da avanspettacolo, brani ispirati alle comiche e alla comicità dei cartoni animati: palline da golf esplosive, canoe che affondano nel Tevere, trappole per far uscire di strada la moglie. Tutto va male, o - per dirla con Franco e Ciccio - a schifio finisce. Ogni volta la moglie sopravvive, i due killer si presentano alla cassa ma trovano la donna sempre viva e vegeta. L’ultimo tentativo ha un esito ancora peggiore, perché i due killer comprenderanno solo al funerale di aver ucciso il marito. Da citare la corsetta finale che cita le comiche di Stanlio e Ollio, ma anche Charlie Chaplin, momento consueto nelle chiusure dei film con protagonisti i due comici siciliani. L’episodio è scritto e sceneggiato da Costa e Mendum.

Grazia Maria Spina, bellezza da copertina

40 ma non li dimostra è il miglior segmento del film, scritto e interpretato da un irresistibile Walter Chiari, che in sede di sceneggiatura collabora con Tito Carpi. Gloria Paul accetta di invecchiarsi per esigenze di copione e il cinema compie la magia di capovolgere la realtà. Gloria Paul è una diva del muto che torna sulle scene, si fa truccare da ventenne per interpretare un film, ma nello stesso giorno incontra un pescatore veneto e tra i due scocca la scintilla dell’amore. L’episodio è un lungo monologo di Walter Chiari che dà vita a un personaggio fantastico, un sempliciotto romantico, poeta e ingenuo, convinto di aver trovato l’amore della sua vita, ma alla fine capisce che è stato tutto un’illusione. Il pescatore cerca ancora la sua bella dopo l’incontro sul mare, ma quando incontra la tardona crede di trovarsi di fronte alla madre e piange un amore perduto. Poetico il finale: “Sa perché su figlia è bella? Perché ha la mamma più bella del mondo”. Commedia sentimentale, neorealismo rosa alla Pane amore e fantasia, a tratti pure commedia balneare stile Luciano Emmer, ma su tutto giganteggia l’istrionismo di Walter Chiari che passa dalla poesia all’avanspettacolo. Gloria Paul è bellissima e affascinante.

La bellissima Gloria Paul

Canto flamenco è un drammone sentimentale scritto da Paulino Rodrigo e diretto da Javier Setó, del tutto fuori tema con il tono scanzonato del film, basato sul gusto per il fotoromanzo e per il feuilleton. Franca Marzi è la tardona dell’episodio, padrona di un night dove si esibisce il bel pianista Gabriele Tinti, mentre Paquita Rico è la giovane ballerina di flamenco. L’amore che nasce tra i due giovani rischia di incrinare il rapporto complesso da madre - amante che si è instaurato tra la tardona e il ragazzo, ma alla fine sarà la donna matura a spuntarla, sconfiggendo la rivale. Si tratta dell’episodio meno interessante, di maniera, il più datato e meno attraente per un pubblico contemporaneo. In televisione circola una versione del film priva di questo segmento, che invece è compreso nella versione dvd edita da Hobby e Work. Franca Marsi recita uno degli ultimi ruoli di una lunga carriera, mentre Gabriele Tinti è nel pieno delle commedie sentimentali prima di passare all’erotico, dopo aver conosciuto la futura moglie Laura Gemser.

Raimondo Vianello, protagonista de L'armadio

L’armadio - scritto da Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi - ci riporta sul piano della pura farsa, addirittura della pochade alla Feydeau, perché il tema è la moglie tardona con molti amanti nascosti nell’armadio. Raimondo Vianello è irresistibile come finto amante, ma non sono da meno la protagonista femminile Lina Volonghi, la spalla esperta ed efficace Luigi Pavese (sugli schermi fin dai tempi del muto!), i caratteristi Umberto D’Orsi (l’amante che vive da giorni nell’armadio), Franco Volpi (l’amante mammone) e Giulio Marchetti (l’amante con la valigia). Annie Gorassini è la bella segretaria, innamorata di Vianello, ma che alla fine si scoprirà amante del padrone (Pavese), nascosto pure lui in un armadio. Luigi Pavese vuole incastrare la moglie per divorziare, convince lo sfaticato impiegato Vianello a nascondersi nell’armadio di camera e a fingersi amante per poter cogliere la donna in flagrante.  Il problema è che la moglie ha addirittura tre amanti che finiscono uno dopo l’altro nell’armadio a far compagnia a Vianello! La comicità è notevole, giocata sui caratteri e sui doppi sensi, a parte alcune trovate verbali come Luigi Pavese che non riesce a pronunciare la parola fedifraga. “Dica svergognata che è meglio!”, suggerisce Vianello. La pochade finisce in bagarre, ovviamente, tra Vianello e gli amanti, dentro l’armadio. Abbiamo anche un doppio finale che mostra le gambe della bella Gorassini e Luigi Pavese come amante nascosto nell’armadio.

Annie Gorassini, altra bellezza del film

Cinque episodi diversi tra loro, politicamente scorretti per il periodo storico, confezionati da un Marino Girolami in gran forma, girati in un perfetto bianco e nero, ben fotografati e sceneggiati con cura da un nutrito gruppo di autori. Franco e Ciccio sono presenti solo in un episodio e servono come richiamo per il pubblico all’interno di un contenitore di buon livello. I due comici siciliani lavorano molto, il 1963 è l’anno della consacrazione al successo, che li vede alternare pellicole da protagonisti ad apparizioni limitate in pellicole a episodi. Il film a episodi va di moda negli anni Sessanta, il suo maggior difetto è la troppa eterogeneità, come nel caso de Le tardone, che vede convivere due farse con due commedie sentimentali e un dramma romantico.

Enzo G. Castellari (Girolami), figlio di Marino e fratello di Enio, è montatore e aiuto regista

La critica non è tenera con Marino Girolami. Paolo Mereghetti concede una stella e mezzo con uno sconcertante giudizio: “Discontinuo film a episodio che mescola barzellette  stiracchiate (Un delitto quasi perfetto e L’armadio) con insoliti ritratti di donne non più giovanissime, nei quali una diffusa malinconia contrasta con il tono scanzonato cui aspira il film per toccare, con la Franca Marzi di Canto flamenco, punte di autentica e toccante disperazione esistenziale”. Morando Morandini conferma la stella e mezzo ma non si avventura in giudizi critici. Pino Farinotti è il più generoso (due stelle), ma pure lui non motiva. 
Da citare, a titolo di curiosità, la presenza del giovane Enzo Girolami (il futuro Enzo G. Castellari), figlio di Marino e fratello di Enio, come montatore e aiuto regista.

Gordiano Lupi

giovedì 19 aprile 2012

Le avventure di Pinocchio

di Luigi Comencini (1972)


Regia: Luigi Comencini. Soggetto: Carlo Collodi (liberamente rivisto). Sceneggiatura. Suso Cecchi d’Amico, Luigi Comencini. Fotografia. Armando Nannuzzi. Montaggio: Nino Baragli, Vivi Tonini. Musica. Fiorenzo Carpi. Scenografia e Costumi: Piero Gherardi. Assistente alla regia. Silla Bettini. Marionette. Fratelli Colla. Interpreti: Andrea Balestri, Nino Manfredi, Gina Lollobrigida, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Mario Adorf, Riccardo Billi, Zoe Incrocci, Ugo D’Alessio, Furio Meniconi, Pino Ferrara, Mario Scaccia, Enzo Cannavale, Carlo Bagno, Lionel Stander, Nerina Montagnani, Galliano Sbarra, Vittorio De Sica, Jacques Herlin, Orazio Orlando, Fred Williams, Clara Colosimo, Ferdinando Murolo, Domenico Santoro, Walter Richter, Willy Semmelrogge, Luigi Leoni.

Luigi Comencini

Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1880 - 83) di Carlo Collodi è uno dei romanzi per ragazzi più famosi di tutti i tempi.  Merito del cartone animato Disney, certo, che modifica la storia originale, introduce una balena al posto del pescecane ma rende la storia universale. Merito anche dello sceneggiato televisivo di Luigi Comencini, un vero esperto del cinema per ragazzi, 280’ di narrazione per immagini divise in cinque puntate (320’ nell’edizione francese), ridotte a poco meno di 120’ nella versione cinematografica. Un lavoro ben fotografato da Armando Nannuzzi, che gode di una colonna sonora indimenticabile scritta da Fiorenzo Carpi, di una scenografia curata nei minimi particolari da Piero Gherardi e di alcune marionette d’epoca ideate dai fratelli Colla.

Nino Manfredi è Geppetto

Il Pinocchio di Luigi Comencini e Suso Cecchi d’Amico è una rilettura cinematografica dell’opera di Collodi che cade in alcune contraddizioni, ma resta un lavoro di fondamentale importanza per la conoscenza di un’opera letteraria immortale. Pinocchio viene subito trasformato in ragazzino dalla Fata Turchina - che sarebbe la moglie morta di Geppetto - ma torna burattino ogni volta che commette una marachella. Il Gatto e La Volpe sono due loschi figuri che lavorano per Mangiafoco, ma cercano di truffare Pinocchio solo dopo aver perso il lavoro.  Pinocchio viene sequestrato da Mangiafoco con il suo carrozzone reo di aver interrotto la recita. La sequenza dei medici è completamente diversa dal libro: sono soltanto due e disquisiscono sulla possibilità di far ritornare Pinocchio nei panni di un bambino. L’incontro con Lucignolo e il furto delle frittelle da un bancone sono aggiunte di sceneggiatura, così come non è scritta nel libro la parte (ottima!) in cui Geppetto cuoce una povera schiacciata fatta d rosmarino, acqua e briciole di pane. Il Paese della Cuccagna è rappresentato come un grande Luna Park ed è ben diverso dalla storia pensata da Collodi. Il pescecane e il tonno sono due pupazzi di gomma e va rilevato un dialogo di Geppetto: “Pescecane o balena, fa lo stesso. Questo mostro non so cosa sia”, che tende a salvare il cartone di Disney.

La sceneggiatrice Suso Cecchi d'Amico

Il film conserva tutta la poesia del romanzo di Collodi, è girato in maniera realistica, tra le nevi e il vento dell’Appennino e il mare del litorale tirrenico. Pinocchio è un paladino della libertà, che si lascia affascinare dal richiamo dell’avventura e rifiuta le lezioni dei moralisti. Resta un film fantastico che vede Pinocchio passare da burattino a ragazzo, subire le punizioni ogni volta che sgarra dalla morale ordinaria e finire in mezzo ai guai per la sua dabbenaggine. Andrea Balestri è un eccellente interprete, naturale e spontaneo, un ragazzino pisano che non farà altro nel mondo del cinema, recitando il ruolo della sua vita. La sua interpretazione mette a fuoco il conflitto tra libertà e repressione, ma anche l’amor filiale e il valore dell’amicizia. Nino Manfredi è un credibile Geppetto, Gina Lollobrigida non piace a Morandini come Fata Turchina, ma in realtà la sua recitazione è buona, così come sono memorabili Il Gatto e La Volpe di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. I due comici aprono il film come imbonitori di Mangiafoco e ritornano in scena come assassini alla caccia di Pinocchio, suscitando le ire del pubblico più giovane che scrive lettere di protesta alla Rai. I beniamini dei bambini non possono volere la morte di Pinocchio, né tanto meno truffarlo! In realtà, Franco e Ciccio sono una perfetta coppia di imbroglioni, il primo sfoggia una risata sardonica, il secondo è un maneggione truffatore che convince Pinocchio a sotterrare le monete. Tutti e due molto bravi, senza eccedere in smorfie, costretti da una sceneggiatura precisa che non permette improvvisazioni. Tra gli altri interpreti ricordiamo un abile Lionel Stander nella parte di Mangiafoco, Mario Adorf come domatore del circo, Luigi Leoni è il maestro di Pinocchio, Zoe Incrocci nei panni di una divertente lumaca, il vecchio Riccardo Billi è il conducente del carro per il Paese della Cuccagna, Ugo D’Alessio è un perfetto Mastro Ciliegia. Pino Farinotti apprezza il film: “Comencini ha sempre guardato con intelligenza al mondo infantile, dedicandogli film e inchieste televisive: anche con questa versione del libro di Collodi, trasmessa prima a puntate dalla televisione italiana, ha avuto la mano molto felice”. Morando Morandini conferma: “Pinocchio è un eroe della libertà, anche se viene mantenuto il principio repressivo, forse ancora più forte che in Collodi. Libera lettura che comunque fa centro anche per merito degli attori, a parte Gina Lollobrigida come improbabile Fata Turchina”. Un lavoro importante, da vedere e rivedere in compagnia dei vostri figli. La versione in dvd è disponibile dal 19 aprile 2000.

martedì 17 aprile 2012

Armiamoci e partite! (1971)

di Nando Cicero


Regia: Nando Cicero. Soggetto: Giulio Scarnicci, Enzo Tarabusi. Collaboratore al trattamento: Steno. Sceneggiatura: Giulio Scarnicci, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Raimondo Vianello, Nando Cicero. Ispettore di Produzione: Enrico Pili. Aiuti Registi: Roberto Parlante, Luigi Oliviero. Montaggio: Lina Caterini. Effetti Speciali: Gino Vagniluca. Scenografia: Amedeo Mellone. Fotografia. Aristide Massaccesi. Costumi: Luciano Sagoni. Musiche: Carlo Rustichelli, dirette da Bruno Nicolai, canzone cantata da Gianna Spagnuolo. Direttore di Produzione: Renato Panetuzzi. Interpreti: Martine Brochard, Anna Maestri, Alfonso Tomas, Renato Pinciroli, Dante Cleri, Gino Pagnani, Nino Terzo, Alberto Sorrentino, Aldo Bufi Landi, Philippe Clay, Alfredo Adami, Fortunato Arena, Renato Baldini, Aldo Barberito, Luigi Bonos, Stuart Brisbane Colin, Efisio Cabras, Armando Carini, Pietro Ceccarelli, Consalvo Dell'Arti, Gildo Di Marco, Giorgio Dalfin, Angelo Giusto, Gipo Leone, Ignazio Leone, Renato Malavasi, Furio Meniconi, Eleonora Morana, Corrado Olmi, Stefano Oppedisano, Gennaro Palumbo, Vito Pecory, Jean Rougeul, Giuliano Sbarra, Luca Sportelli, Luigi Tasca, Liliana Terribile, Amedeo Timpani, Nino Vingelli, Richard Watson. Una coproduzione Goriz Film spa (Roma) e Francoritz Produzione sarl (Parigi) realizzata da Luigi Rovere. Interni: Studi De Paolis Incir (Roma). 

Martine Brochard

Armiamoci e partite è una divertente commedia bellica girata con inconfondibile stile surreale da Nando Cicero che utilizza comicità slapstick citando a piene mani le comiche del cinema muto. L'incipit è un momento memorabile della pellicola, sceneggiato e girato stile vecchia comica, con Franco e Ciccio inservienti di un bar gestito da un irascibile Dante Cleri. Vediamo Martine Brochard nei panni di una sexy cameriera, alcuni avventori truccati come Oliver Hardy e Charlie Chaplin e un pugile suonato che tira cazzotti a ogni suono di campanello. Franco è un cameriere imbranato che per errore strappa le tovaglie, le usa come fazzoletti e tovaglioli, imitando Stan Laurel in un'identica interpretazione. Da vedere e rivedere queste sequenze iniziali per come sono girate e interpretate, mentre il resto del film è brillante, ma non raggiunge mai questi livelli.


Siamo a Parigi, nel 1914, Franco e Ciccio acquistano la cittadinanza francese ma non fanno in tempo a gioire che vengono chiamati sotto le armi per combattere nella Grande Guerra. L'ambiente delle trincee è ricostruito bene con grande uso di comparse e molti effetti speciali. Nando Cicero descrive una comica guerra di trincea in cui Franco e Ciccio ne combinano di tutti i colori, si offrono volontari per missioni perché la truppa fa dietrofront e loro restano in prima fila, finiscono per doversi liberare del corpo privo di vita di un generale inglese, rischiano di finire davanti a un plotone di esecuzione e travolgono con un incredibile umorismo verbale e mimico. Martine Brochard è la sexy spia che si finge ballerina, droga il generale inglese per farlo sembrare morto, ma viene sconfitta dai due soldati pasticcioni che senza volerlo portano in salvo l'ufficiale alleato. La parte in cui entra in scena la Brochard per irretire il generale anticipa la commedia sexy, che Cicero frequenterà negli anni successivi, con alcune sequenze calde e l'immancabile serratura per spiare la ragazza che si spoglia. La bella attrice francese, alla prima pellicola italiana di una certa importanza dopo aver fatto un po’ di televisione, compare seminuda in diverse sequenze, la vediamo con il vestito lacerato e subito dopo sotto il letto con il generale. Franco e Ciccio stemperano la tensione erotica con una parte comica ispirata al cinema muto. I due maldestri soldati rovinano l’incontro amoroso perché devono collegare una linea telefonica e a un certo punto credono di aver ucciso il generale che invece è solo drogato. Comincia una parte di pellicola che prevede un viaggio paradossale verso il fronte con un cadavere al seguito, nascosto nei modi più incredibili. Franco e Ciccio rischiano più volte la vita e alla fine si rendono conto che il generale è vivo, ma quando si risveglia, al rumore delle pernacchie, per poco non rischia di finire impallinato dal nemico. Il plotone di esecuzione grazia i nostri eroi perché il generale riconosce in tempo di essere stato salvato.

Fraco, Ciccio e il mimo Clay

Un film interessante, soprattutto per le esplicite citazioni al cinema muto e al periodo delle comiche, ricco di trovate che vanno oltre le battute, ma sono soprattutto fisiche e mimiche. Il francese Philippe Clay è perfetto nella parte del generale, eccessivo come un personaggio dei fumetti, anche perché il suo vero mestiere è quello del mimo e ben si presta al ruolo del finto morto. Nino Terzo che butta il finto morto dalla finestra del treno perché pensa di averlo ucciso con un colpo di valigia è irresistibile. Gino Pagnani che conduce la fucilazione e fa l'occhiolino ai condannati perché ha un tic nervoso è un altro bel momento di comicità fisica. La barella double face con il generale sul fondo e un soldato sopra è un'altra trovata geniale. La caccia al corpo del generale che cade da ogni parte, si perde, ma non muore mai e viene sempre ritrovato è il leitmotiv del film. Franco ci regala anche una parte onirica sognando la Brochard e alcuni doppi sensi divertenti quando la sexy spia gli offre del denaro ma prima vuole vedere il corpo. Franco appare nudo (mostra persino il sedere), coperto da un ramo d’olivo, non ha capito che la spia vuole solo il corpo del generale. Una battuta in chiaro stile Franco Franchi va citata. “Signora, lei è mai stata a San Marino?”. Brochard: “No”. Franco: “Nemmeno io. Sarà stata un’altra coppia”. I bombardamenti sono da cartone animato, ma anche molte sequenze ricordano un tipo di comicità fanciullesco e genuino. Ricordiamo un aereo che precipita perché non riesce a mirare un centro disegnato dai nostri eroi. Sembra di vedere le Sturmtruppen di Bonvi che forse Cicero conosce, ma in ogni caso trama e sceneggiatura sono solide e senza sbavature, scritte da professionisti come Benvenuti, Steno, Vianello e De Bernardi. La fotografia nitida di Aristide Massaccesi (in arte Joe D'Amato) completa un’opera originale, ancora oggi godibile a livello di comicità surreale.

Nando Cicero, giovane attore

Nando Cicero  (1931 - 1995) è un regista soprattutto di western (Il tempo degli avvoltoi) e commedie comico - erotiche (Il gatto mammone, L’insegnante, L’assistente sociale tutto pepe, W la foca!) dallo stile ben definito, caratterizzate da umorismo surreali, quasi da cartone animato. La sua scomparsa viene ignorata da mass media, addetti ai lavori e critica. Soltanto Marco Giusti su Il Manifesto gli dedica un articolo commemorativo intitolato Nando Cicero, morte di un re della commedia. Nel pezzo Giusti ricorda che rispetto a Mariano Laurenti, che all’epoca era un piccolo Lubitsch, Cicero era più autore, capace di grandi follie e stranezze, sempre molto spinto sul sesso e sui rumori di fondo. La critica non è così negativa nei confronti di Armiamoci e partite. Paolo Mereghetti concede una stella e mezzo, giudicando il film “uno dei più famosi capitoli dell’interminabile saga dei due comici”. Marco Giusti parla di un “grandissimo Franco & Ciccio movie” e non ha torto. Il critico romano argomenta la sua tesi: “In mano a Cicero, il film sembra una vera commedia di guerra, con un cast fenomenale. Sceneggiatura fantastica. Franco mostra persino il sedere”. Riportiamo per dovere di cronaca la leggenda che nella copia francese del film Franco Franchi mostrerebbe il membro in erezione, invece che nascosto dal ramo di ulivo. Due stelle per Morando Morandini: “Novantaseiesimo film della coppia - e uno dei dieci del 1971 - della copia Franco & Ciccio, scritto da sei sceneggiatori, tra cui Raimondo Vianello. Il modello da parodiare è vagamente Uomini contro (1970) di Francesco Rosi. Ridanciano e arruffato”. Non condividiamo. Pino Farinotti fa di peggio, perché assegna una stella e si limita a raccontare la trama.

Alcune sequenze del fantastico incipit: http://www.youtube.com/watch?v=SW5f7y78U9A

Gordiano Lupi

Una vita nel mistero - Il cinema di Claudia 12

Recensione di Claudia Marinelli


Regia : Stefano Simone
Produttore: Stefano Simone
Fotografia: Stefano Simone
Montaggio: Stefano Simone
Costumi: Dora De Salvia
Cast: Tonino Pesante, Dina Valente, Francesco Granatiero, Don Antonio D’Amico, Cosimo S. Nobile, Lello Castriotta, Amilcare Renato
Produzione: Italia
Durata 84 minuti


Questa volta il giovane regista Stefano Simone si è cimentato nella produzione di un lungometraggio di natura “ibrida” perché si tratta di un documentario che racconta un storia ispirata a fatti reali in cui non c’è voce narrante, ma personaggi che si muovono, parlano e agiscono come in un film. Il film inizia con le immagini di un signore anziano, Angelo Sormani, che rende visita alla tomba della moglie. Lo vediamo in seguito molto più giovane, pregare in una cappella a San Giovanni Rotondo e capiamo la profonda fede del protagonista che, tornando a casa quello stesso giorno, osserva il cielo nuvoloso oltre i vetri della sua auto.  D’un tratto si ferma come folgorato da una visione. Prende in mano la macchina fotografica e scatta delle foto. Siamo incuriositi. Che cosa avrà mai visto nel cielo? A casa l’aspetta la moglie malata, che cerca di lottare contro un male cattivo e doloroso che piano, piano la sta consumando. La coppia affiatata sembra aver accettato il dolore, ma non sembra rassegnata in modo passivo. Angelo fa sviluppare le foto che ha fatto al cielo e si rende conto che le nuvole avevano quel giorno le sembianze del viso di Padre Pio. Angelo va dall’oncologo senza la moglie, e il medico non dà speranze di guarigione: il tumore è troppo avanzato. Al ritorno a casa la donna chiede al marito notizie sulla sua salute e, alle risposte evasive di quest’ultimo, lei capisce che sta per morire. I coniugi però non si perdono d’animo, non si disperano, e cominciano a pregare. Angelo ha altre esperienze che interpreta come segni di amore Divino e incitazione alla preghiera: una sera benché le finestre siano chiuse, del vento smuove le pagine di una rivista per fermarle sull’immagine di Padre Pio, quando rovescia un po’ di caffè sul fornello, la macchia prende la forma di un cuore.  Quando Angelo ritornerà dal medico, dopo gli accertamenti di routine la sorpresa sarà grande: la moglie è completamente guarita. Felici i coniugi godono della compagnia reciproca, vanno a cena fuori, passeggiano sul lungomare, sono grati per la vita serena che è stata loro ridata.


Angelo gira per le strade di campagna e continua a fotografare le bellezze della natura, soprattutto i fiori, e altre forme che in qualche modo ricordano l’amore di un Dio: un tovagliolo che cadendo ha preso la forma di un angelo, un pezzo di pane spezzato che ricorda il profilo di Padre Pio. Capiamo che la moglie di Angelo però dopo un certo tempo è morta, e che l’uomo è rimasto da solo. Ma lungi dall’essere arrabbiato, ci mostra la sua profonda accettazione della realtà della sua vita e la sua capacità di meravigliarsi delle cose più semplici, che continua a fotografare. Le sue fotografie vengono notate da un gallerista che lo invita a fare un mostra. Angelo accetterà ed esponendo le sue numerose foto dei fiori, degli oggetti che gli hanno ricordato angeli e santi,  e delle bellezze naturali, riuscirà a comunicare agli spettatori l’amore che lo anima, e che lui vede in tutte le piccole e grandi cose della sua vita quotidiana, l’amore che lui crede sia amore divino.


Chi nella propria vita non ha avuto esperienze inspiegabili? Interessante però è il modo in cui il regista ha trattato l’argomento raccontando la storia personale del protagonista, profondamente credente. É Angelo che attribuisce alle sue esperienze un valore “divino”, e trova una spiegazione sovrumana al mistero di alcuni avvenimenti della sua vita. Il film è di fatto una testimonianza, non una dimostrazione e il regista ha saputo raccontare attraverso gli occhi del protagonista, senza voler affermare verità che per altro sarebbero state difficili da provare. Colpisce il rispetto con il quale Stefano Simone ci ha illustrato la storia, la gentilezza con la quale fa muovere i personaggi sullo schermo e, benché i dialoghi avrebbero potuto essere più approfonditi, lo sguardo amorevole del regista verso Angelo e sua moglie è evidente. Il film giustamente non vuole dare delle risposte, vuole solo porci delle domande attraverso il racconto della storia. Ed in effetti le domande che affiorano alla mente sono tante. Perché esistono dei casi di remissione spontanea da malattie gravissime? Perché in certi pazienti le difese immunitarie riescono a combattere la malattia e alle volte a debellarla del tutto, mentre in altri no? Perché certe volte ci sembra di essere “guidati” da qualche forza che non sappiamo definire? Come possiamo spiegare ad esempio i casi di miracoli a Lourdes? E a San Giovanni Rotondo?  Ci sono stati dei medici che hanno dedicato anni allo studio di casi di pazienti con remissioni totali da tumori ormai in stadi avanzati, ma ancora non si è riusciti ad arrivare a una spiegazione scientifica. Questo non significa che la spiegazione scientifica non esista, ma solo che se esiste non l’abbiamo ancora scoperta. Certe persone hanno  difese immunitarie che  funzionano talmente bene da sconfiggere la malattia, ma le ragioni sono ancora ignote.


Il film propone anche dei validi spunti di riflessione di come una cultura si rapporti con il dolore della malattia e della morte. Angelo è addolorato per la malattia della moglie e va a trovare l’oncologo che la cura, per avere delle risposte sul futuro della sua amata. E va da solo, lasciando la moglie a casa. Quando il medico non gli dà speranza, lui è affranto, torna a casa ma non ha il coraggio di dire alla moglie la verità.  La moglie capisce che sta per morire, e non chiede ulteriori spiegazioni. Entrambi pregano. Come è diverso questo atteggiamento a da quello di un anglosassone ad esempio, o uno svedese. Non sarebbe pensabile negli Stati Uniti, o in Inghilterra, che il medico non informasse il paziente del suo stato di salute. E il paziente stesso non avrebbe mai delegato un familiare ad andare dal medico senza di lui.  Questione di religione? Forse.
Io direi più questione di cultura. La nostra cultura “latina” ma forse proprio italiana, ci porta a negare la morte. Spesso i familiari nascondono al malato il suo vero stato di salute, perché con la morte non c’è dialogo, non ci sono sconti, va allontanata il più possibile, va negata soprattutto al condannato, perché questo deve vivere nell’illusione di poterla sconfiggere. Penso al film “Il settimo sigillo” in cui il personaggio principale gioca a scacchi con la morte, la guarda in faccia, la sfida e la combatte, anche se sa che perderà. Il regista, Bergman, è nordico, svedese. E forse Bergman non era un credente, ma era cresciuto in un Paese cristiano. Non so se sia meglio l’atteggiamento di Angelo, il protagonista de “Una Vita nel Mistero” e di sua moglie, oppure l’atteggiamento più nordico di guardare la realtà in faccia, e la morte in faccia. Qualsiasi atteggiamento di fronte ai dolori più grandi della vita è valido,  mi ha solo molto colpito come il regista del film abbia presentato il nascondere la condanna al condannato, come qualcosa del tutto “normale”. Il messaggio di fondo  che vuole passare Angelo, che ancora vive e continua a scattare le sue bellissime foto, è di più ampia portata e risiede dello stupore di un uomo verso il mondo, la natura, la bellezza del cielo, dei fiori, delle piante e il mistero di certi messaggi che alle volte la natura ci invia. Bella l’immagine finale del film che riprende l’anziano Angelo seduto sulla panchina a stupirsi ancora di ciò che lo circonda.
Stefano Simone è un giovanissimo regista che sa riprendere con rispetto e amore il mondo che lo circonda, in questo film, che ha prodotto lui stesso, con il patrocinio del Comune di Manfredonia, è stato anche il fotografo, e il montatore! Una promessa per il cinema italiano.