martedì 31 luglio 2012

Prigionieri di un incubo (2001)

di Franco Salvia


Regia: Franco Salvia. Soggetto e Sceneggiatura: Franco Salvia. Fotografia: Luigi Ciccarese. Montaggio: Franco Salvia. Musiche: Giorgio Costantini, Alessandro Coppola. Produzione: Idotea. Interpreti: Corinne Clery, Gianni Mazza, Antonella Mosetti, Attilio Fontana, Antonio Zequila, Valentina Pace, Cristina Parovel, Gianni Ciardo, Gerardo Amato, Barbara Caiano.

Antonella Mosetti ci regala una doccia anni Settanta

Un film così brutto da diventare cult, ricercato dagli amanti del trash per vedere fino a che punto può arrivare la fantasia di Franco Salvia, regista, soggettista, sceneggiatore e persino montatore di una pellicola a suo modo indimenticabile.


Prigionieri di un incubo è il secondo film del pugliese Franco Salvia (Monopoli, 1945), laureato al Centro Sperimentale di Cinematografia, abile con la macchina da presa, meno capace come sceneggiatore e come direttore di attori. Salvia è autore di una decina di pellicole, quasi tutte televisive, mentre i lavori cinematografici - rigorosamente un digitale - sono caratterizzati da una propensione verso il thriller fantastico con venature erotiche. Franco Salvia è un cinefilo, tra i fondatori della barese Telenorba, una delle prime e più interessanti televisioni private, che si ispira al cinema italiano degli anni Settanta e Ottanta. Il suo stile ricorda molto da vicino autori come Mario e Andrea Bianchi, ma sono frequenti citazioni a Dario Argento e Sergio Martino (la mano guantata del killer), così come apprezziamo elementi del primo Mario Bava e di Antonio Margheriti. Prigionieri di un incubo è girato in un interno, l’hotel Castellinaria di Polignano a Mare, nella finzione un luogo sinistro dove cinquant’anni prima si era verificata una strage. Proprietaria dell’albergo è Corinne Clery (come l’avranno convinta a far parte del cast?), il portiere è il maestro Gianni Mazza, nelle insolite vesti di attore, mentre alcune presenza femminili si ricordano per bellezza almeno pari a incapacità recitativa (Valentina Pace e Antonella Mosetti). Antonio Zequila completa il cast negativo, mentre Gianni Ciardo, nei panni di un inquietante giardiniere, è meno scadente del solito. La trama riprende il tema dei Dieci piccoli indiani di Agata Christie, con alcuni ragazzi ospiti dell’albergo che scompaiono e muoiono uno dopo l’altro. Una tetra figura mascherata e vestita di nero vorrebbe citare Scream (1996) di Wes Craven, ma anche molti killer imprendibili del cinema di genere italiano. Non si comprende chi possa essere l’assassino, forse davvero un fantasma o soltanto un folle travestito. Il doppio finale non risolve niente, ma resta aperto a ogni possibile soluzione ricorrendo allo stratagemma del sogno.  

Corinne Clery, una bella presenza

Prigionieri di un incubo è un pessimo film mai uscito in sala, girato in un dignitoso digitale, sceneggiato malissimo, infarcito di dialoghi stupidi e inconcludenti, montato secondo la lezione del peggior Baldanello, a base di tempi morti e di lunghe passeggiate prive di senso. Nessun dizionario di cinema ha il coraggio di citarne l’esistenza ma la pellicola passa spesso sulle emittenti private minori del circuito digitale terrestre.

Gordiano Lupi

venerdì 27 luglio 2012

Joe D’Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato, Umberto Lenzi e il cannibal movie.

di Mario Bonanno
da http://www.sololibri.net/Storia-del-cinema-horror-italiano,30128.html

Non so se ci sia di che vantarsi, ma il Cannibal movie io l’ho visto al cinema. Non in tutte le sue salse sangue & natura selvaggia (vedi i sottofiloni tardo-mondo movie o zombiesco), però i film che contano (?), quelli sì. Facendo mente locale, ricordo “Mangiati vivi!” (Umberto Lenzi), ricordo bene “Cannibal ferox” (idem), benissimo “Emanuelle e gli ultimi cannibali” (Joe D’Amato) e, intorno alla metà degli anni Ottanta, in un’arena estiva, “Cannibal holocaust”, restituito alle sale dopo quattro anni di sequestro causa censura. Le cose andavano più o meno in questo modo: sullo schermo si consumava l’orrido pasto di interiora esotiche (per tacere di squartamenti/scuoiamenti, nonchè di amplessi nudi e crudeli) e io, nel mio piccolissimo, al riparo di una saletta di terza visone (ce n’erano, allora) facevo incetta di pop-corn. Assuefatto com’ero allo splatter de noantri (via Argento-Fulci- Massacesi e compagnia filmante), l’ancora imberbe Luca Barbareschi che macellava in piano ravvicinato un inerme maialino made in Amazzonia, mi faceva un baffo. Mai fatto parte della cricca degli snob certificati (spettatori o pennivendoli che siano): quando ho divorziato dal filone l’ho fatto senza abiure e/o veleni lava coscienza di circostanza.
Questi frammenti di memoria cine-trashista (?) non sono (ovviamente) fine a se stessi: la copiosa “Storia del cinema horror italiano” (Editrice Il Foglio) che Gordiano Lupi va dedicando, in progress, all’industria splatter-gore-thriller di casa nostra, si è di recente arricchita del volume numero tre, consacrato in larga parte proprio al cannibalistico made in Italy. Tra le pagine, le uniche ospitate horror “in senso stretto” sono quelle riconducibili ai guru del gotico anni Sessanta/Settanta, Mario Bava e Pupi Avati; il resto spazia a tutto campo, tra una filmografia e l’altra di robusti “artigiani” votati piuttosto all’expoitation di casa nostra (da Joe D’Amato a Ruggero Deodato a Umberto Lenzi, per fermarmi ai soliti noti). Con la passionaccia storico-filologica che ne muove gli intenti, Gordiano Lupi si presta a guida ideale per questa discesa nel Maestrolm dei gironi dell’antropofagia erotico/esotica: da Cinecittà alla giungla amazzonica (alla ricerca del solito antropologo misteriosamente scomparso), con il contorno aggiunto di civiltà primitive, pulsioni primarie, animali feroci e esseri umani ancora di più, amplessi multipli in zona soft-core, sceneggiature ridotte all’osso e budget pure. E’ parte della “meravigliosa” storia del cinema di genere italiano, che Lupi - con la sua editrice Il Foglio - sta sistematizzando con una perizia degna di applausi. Valga anche per questa “Storia del cinema horror” quanto ho scritto di recente in occasione dell’uscita del primo volume dell’epopea western all’italiana. Pregio ulteriore: la bella copertina e il formato (agevole) del volume.

I due figli dei Trinità (1972)

di Osvaldo Civirani


Regia: Osvaldo Civiriani (Richard Kean). Soggetto e Sceneggiatura: Osvaldo Civirani. Fotografia: Walter Civirani. Operatore alla Macchina: Sergio Rubini. Assistente Operatore: Enrico Priori. Montaggio: Mauro Contini. Fonico: Pietro Ortolani. Trucco: Marcello Di Paolo, Marisa Manici. Parrucchiera: Lidia Puglia. Sarta: Nadia Fabriani. Maestro d’Armi: Clemente Ukmar. Effetti Speciali: Battistelli. Consulenza: Prestigiatore Raimondi. Costumi: Cantini & C. Musiche: Sante Maria Romitelli. Architetto: Giorgio Postiglione. Direttore di Produzione: Graziano Fabiani. Ispettore di Produzione: Bruno Evangelisti. Segretaria di Edizione: Luigina Lovari. Produzione: Production International Films. Colore: Spes di E. Catalucci. Teatri di Posa: De Paolis. Registrazione: Fono Roma, CD. Interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Lucretia Love, Anni Degli Uberti, Freddy Hungar, Franco Ressel, Andrew Scott, Fortunato Arena, Gianni Pulone, Angelo Susani, Fulvio Pellegrino, L. Antonio Guerra, Clemente Ukmar.

La sequenza dei frati al laghetto di Manziana: la fotografia è completamente errata

Osvaldo Civirani non è certo uno dei migliori registi tra gli autori che hanno guidato la copia comica siciliana. I due figli dei Trinità è sulla stessa falsariga de I 2 della formula 1 alla corsa più pazza del mondo (1971) e Due pezzi da 90, forse peggiore, e anticipa il modesto I due gattoni a nove code… e mezza ad Amsterdam (1972), anche se è firmato con il suo abituale pseudonimo di Richard Kean. Pare quasi un remake de Il bello, il brutto, il cretino (1967), a tratti ricorda I due rringos del Texas (1967) e I due figli di Ringo (1966), ma è nettamente inferiore alle precedenti parodie western interpretate da Franco Franco e Ciccio Ingrassia.

La bella Luceretia Love seduce Franco

La trama è un pretesto per collegare - in maniera alquanto raffazzonata - diverse scenette di avanspettacolo western, alcune divertenti, altre meno. Franco e Ciccio gestiscono una stazione di servizio per cavalli dove praticano lavaggio, ingrassaggio (agli zoccoli!) e asciugaggio con un attrezzo artigianale a base di scope e di acqua che cade sul dorso dell’animale da un gigantesco catino. Una delle trovate più geniali del film è la costruzione di questo incredibile manufatto che solo la fervida fantasia del nostro cinema popolare anni Settanta poteva partorire. Non dimentichiamo l’insegna stile cartello autostradale dove si comunica ai cow-boy di passaggio che a tre chilometri c’è un posto dove uomini e bestie possono ristorarsi ed è possibile anche lavare il cavallo.

Indimenticabile Salvatore Baccaro - bandito trash!

Civirani cita Sergio Leone con ardite inquadrature degli occhi in primo piano, fotografa duelli paradossali, pistoleri da burletta che cavalcano asini, cavalli alimentati con avena super e pallottole vendute da distributori automatici. La prima parte della pellicola è impostata come una comica del muto, si svolge nella stazione di servizio e mostra una serie di situazioni comiche, tra le quali spicca l’archetipo della fame, una costante nei Franco & Ciccio movies. Franco non mangia quasi mai, perché Ciccio ordina di stare di guardia, oppure perché un bandito gli porta via un enorme panino ripieno di salsiccia e fagioli. Frequenti le fast-motion e numerosi i siparietti da avanspettacolo, come l’arrivo di una troupe di attori che provano Shakespeare ma non hanno soldi per pagare il pranzo. Divertente la citazione di Django con un pistolero che esce fuori dalla bara, così come Salvatore Baccaro è un divertente orribile  bandito che Franco cerca di domare come se fosse una bestia feroce. Abbiamo anche Ringo (niente a che vedere con Tessari!) che chiede un cavallo fresco e si ritrova un asino che si muove a colpi di tromba. L’arrivo di Calamity Jane - nonna di Franco e Ciccio - modifica la trama del film e apre un’improbabile caccia al tesoro. I due gestori della stazione di servizio si scoprono figli dei fratelli Trinità e seguono le indicazioni di una mappa per recuperare una somma ingente nascosta dai loro padri.


Cominciano le citazioni da Lo chiamavano Trinità (1970) e Continuavano a chiamarlo Trinità (1971), di E. B. Cloucher (Enzo Barboni), interpretati da Bud Spencer e Terence Hill.  Prima di tutto vediamo i due cugini cavalcare il deserto con un gigantesco ombrello verde per ripararsi dal sole. Civirani smitizza e ridicolizza i topoi del cinema western. Vediamo Franco e Ciccio bere whisky con la cannuccia e giocare a poker contro un baro professionista. Un prestigiatore si sostituisce a Franco per esibirsi in un numero da giocoliere con le carte da scozzare. La sfida al tavolo verde è parodia pura, così come il duello tra Franco e il cattivo, a base di schiaffoni, riprende il Trinità di Barboni, ma esagerando sul lato farsesco. Siamo nella parte migliore di un film che non può dare più di quel che è lecito attendersi, visto che è pur sempre una parodia di due parodie western.

La sequenza degli attori girovaghi

Ammiriamo la bellezza di Lucretia Love, moglie del produttore Neri Parenti, che ricordiamo quasi debuttante in Fenomenal (1968) e Zenabel (1969) di Ruggero Deodato, nei panni della ballerina che aiuta il cattivo a trovare il tesoro usando le armi della seduzione. “Sono l’ultimo dei belli”, dice Franco, citando una sua canzone. Franco cade nella rete, spiffera tutto, concede persino un passaggio alla bella cavallostoppista e si fa soffiare il tesoro. Entrano in scena anche un gruppo di frati che fanno il bagno nel fiume e alla fine aiutano i nostri eroi a risolvere un sacco di problemi. Civirani gira quasi tutta la pellicola nelle campagne romane, le sequenze del bagno nel fiume sono al laghetto di Manziana, luogo storico del cinema popolare italiano.

La bellezza di Lucretia Love (scena extra dal film)

Bene o male, Franco e Ciccio recuperano il tesoro e rientrano alla base dove se la devono vedere con il bandito Cin Cin Cian, un buffo bandito cinese che parla per proverbi in rima. “Quando un tuo nemico non ti consegna il malloppo gli dai un pugno nell'occhio”, “Se ti dice che non ne sa niente tu fagli saltare un dente”, non sono che due esempi. Il finale è un puro stile Enzo Barboni, molto più volgare e tirato via, con i frati che tolgono le pistole ai banditi e scatenano un’interminabile (e piuttosto fiacca) scazzottata. I soli momenti divertenti vedono Franco con una caffettiera nella mano che gli rende il pugno proibito e quando i nostri eroi indossano come elmi niente meno che uno scolapasta e un secchio. Molto fumettistico, ma efficace. Ottimo il doppio finale con Franco e Ciccio che bevono birra e fanno servire i clienti da due procaci ragazze, ma finiscono per litigare.   

Varie sequenze...

I due figli dei Trinità è un film del periodo decadente, quando orami la rottura tra Franco e  Ciccio era vicina. Una pellicola dal ritmo fiacco, fotografata male, montata peggio e spesso girata con molti errori, scritta e sceneggiata in maniera scolastica. Civirani è un regista figlio di un fotografo, che viene dalla stesa professione, praticata per anni alla Cines. E in questa pellicola fotografa la notte come se fosse il giorno, senza il minimo rispetto per lo spettatore.


Pino Farinotti concede due stelle, mentre Morando Morandini ribassa a una e mezza (ma per il pubblico sono tre) e afferma: “Flebile parodia del western sotto il segno della giustizia, anche divina, che premia i buoni”. In compenso sbaglia il titolo e lo ribattezza I due figli di Trinità. Paolo Mereghetti - forse disgustato - non cita la pellicola e finge di dimenticarsene. Un Franco & Ciccio movie da dimenticare, indifendibile.


Gordiano Lupi

sabato 21 luglio 2012

Simone Buttazzi mi cita (fa piacere)


dal dvd Hobby & Work Come rubammo la bomba atomica (in edicola)

Ingmar Bergman (1918 - 2007)

Da Scene da un matrimonio (1973) a Sarabanda (2003)


Scene da un matrimonio (1973). Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist. Montaggio: Siv Lundgren. Musiche: Owe Svenson. Scenografia: Björn Thulin. Costumi: Inger Pehrsson. Interpreti: Liv Ullmann, Erland Josephson, Bibi Andersson, Jan Malmsjö, Anita Wall, Gunnel Liendblom. Premi principali: David di Donatello (1975) a Liv Ullman (miglior attrice straniera); Golden Globe (1975) miglior film straniero. 


Sarabanda (2003). Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Stefan Eriksson. Scenografia: Göran Wassberg. Costumi: Inger Pehrsson. Trucco: Cecilia Drott. Interpreti: Liv Ullmann, Erland Josephson, Börjeb Ahlstedt, Julia Dufvenius, Gunnel Fred. Premi principali: Argentina Film Critics Associations Awards (2005); Santi Jord Awards (2006).

Ingmar Bergman

Ingmar Bergman (1918 - 2007) è una personalità fondamentale e imprescindibile del cinema, drammaturgo e letterato, sceneggiatore, indagatore della psiche umana, introspettivo cantore dell’incomunicabilità e della difficoltà dei rapporti interpersonali. I suoi capolavori sono vere e proprie pietre miliari della storia del cinema: Il settimo sigillo (1956), Il posto delle fragole (1957), La fontana della vergine (1959), Luci d’inverno (1962). Non è possibile citarli tutti senza cadere nella sterile elencazione.

Liv Ullmann ed Erland Josephson in Scene da un matrimonio

Vogliamo parlare diffusamente, senza pretesa di dire niente di nuovo, di Scene da un matrimonio (1973), lungo film in capitoli per la televisione, teatrale, realizzato in interni claustrofobici, ridotto per il cinema alla durata di due ore canoniche. Scene da un matrimonio è un film introspettivo che sviscera fino in fondo il rapporto uomo - donna e affronta il tema dell’incomunicabilità, senza dimenticare temi importanti come la solitudine, la difficoltà di amare e la contraddittorietà dei sentimenti. Un uomo e una donna, Marianna e Johan, sono descritti in tutte le loro debolezze, negli interni di un’esistenza colma di errori e indecisioni, fragili esseri alle prese con mille contraddizioni. Bergman racconta la storia di un matrimonio che non vuol morire, di una passione che riaffiora ogni volta che i due ex coniugi si incontrano, di due esseri umani in preda alla sensualità ma ancora capaci di tenerezza. Il film è strutturato in sei episodi: Innocenza e panico, L’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto, Paola, Valle di lacrime, Gli analfabeti, Nel cuore della notte in una casa buia in qualche parte del mondo. Si parte con la felicità coniugale, affiorano i primi segni di crisi, l’amante giovane del marito, il divorzio, il nuovo incontro con l’ammissione degli errori, la scoperta di un amore diverso che nonostante tutto li accomuna. Lo sceneggiato televisivo è molto più bello della riduzione cinematografica gonfiata a 35mm, ma in ogni caso la tematica è profonda e semplice al tempo stesso, visto che porta sul banco degli imputati l’istituzione borghese del matrimonio. Teatrale, con suggestioni di Ibsen e Strindberg, due passioni di Bergman, ma molta ispirazione dalla vicenda personale del regista che ha avuto cinque mogli e nove figli, un’esistenza sentimentale molto convulsa.

Erland Josephson, invecchiato, in Sarabanda

Ritroviamo i due protagonisti di Scene da un matrimonio in Sarabanda (2003), l’ultimo film di Bergman, girato a 85 anni, in digitale, ancora una volta per la televisione e sempre strutturato in capitoli. Sono passati trent’anni dall’ultima volta che Marianna e Johan si sono incontrati, adesso si ritrovano invecchiati, perché la donna decide di fare una visita all’ex marito che vive in solitudine, accudito da un’infermiera. Marianna irrompe nella vita di Johan ma lo fa con delicatezza, senza disturbare, senza dire mai una parola di troppo, convive con il suo cinismo, la sua durezza, il disfacimento di un corpo che soffre il passare del tempo. Johan ha un figlio che disprezza e il figlio lo ricambia riversando su di lui un odio viscerale, in compenso la defunta moglie del figlio era molto amata da Johan che vuole bene anche alla nipote, ragazza dotata per la musica.


La tragedia si consuma nel volgere dei dieci capitoli che scorrono al ritmo di una colonna sonora ispirata a Bach con lunghi brani dalle Sarabande del compositore austriaco. Bergman mette l’accento sul rapporto uomo - donna, narra la difficoltà di comunicare, ma anche il rapporto padre - figlio, l’egoismo, la vecchiaia, insomma racconta la vita e ci lascia un testamento spirituale racchiuso in un’opera complessa e irrisolta, proprio come la vita. Bergman non risparmia frecciate a nessuno, scava con durezza sulle piaghe dell’umanità, stigmatizza il rapporto morboso padre - figlia, ma anche il genitore che rifiuta la paternità. Persino l’arte è oggetto di critica senza appello, una sorta di vampira che succhia il meglio dalle persone, pure se il regista riconosce che serve ad alleviare il dolore della vita. Bergman riversa nel film tutto il suo dolore per l’ultima moglie morta, la costernazione di dover sopravvivere in solitudine e senza un conforto quotidiano. Stupenda la scena di nudo con i due attori principali che si spogliano, vanno a letto insieme, abbracciati, senza dover fare l’amore, ma solo con tenerezza, comunicando il bisogno di affetto insito in ogni essere umano.

Liv Ullmann ed Erland Josephson in Sarabanda

Liv Ullmann e Erland Josephson sono bravissimi, due attori espressivi, fantastici interpreti sia del primo film, dove portano il loro vigore giovanile, che del secondo, dove impersonano il lento incedere del tempo e le problematiche legate alla vecchiaia. 

Per vedere il trailer di Sarabanda: http://www.youtube.com/watch?v=N2hyg4FyUcM
Per vedere una parte di Scene da un matrimonio: http://www.youtube.com/watch?v=3uHTw5u5m58
Gordiano Lupi

Post scriptum: Capolavori come questi vengono programmati da Rai 3 alle 4 del mattino, nonostante la nostra azienda televisiva abbia coprodotto Sarabanda. È normale che vengano passate in prima e in seconda serata cose ignobili (senza citare i titoli per non pubblicizzare) mentre per vedere opere d’arte e cinema di qualità si devono trascorrere le notti in bianco?

venerdì 20 luglio 2012

Come rubammo la bomba atomica (1966)

di Lucio Fulci

Regia: Lucio Fulci. Soggetto e Sceneggiatura. Roberto Gianviti, Sandro Continenza, Amedeo Sollazzo. Fotografia: Fausto Rossi. Musica: Lallo Gori. Montaggio: Nella Nannuzzi. Ispettore di Produzione: Albino Morandin. Direttore di Produzione: Piero Ghione. Assistente alla Regia: Giovanni Fago. Truccatore: Andrea Riva. Architetto: Mario Giorsi. Costumi: Berenice Sparano. Arredatore: Umberto Turco. Produzione: Five Film Fono Roma, con la collaborazione di Copro Film (Il Cairo). Teatri di Posa: Incir De Paolis. Girato: Technicolor - Techniscope. Interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Julie Ménard, Eugenia Litrel, Youssef Wahby, Adel Adham, Franco Bonvicini (Bonvi), Gianfranco Morici, Leda Palma, Bruno Ukmar, Silvana Bacci, Abd El Menem Ibrahim, Mario Barboni, Enzo Andronico (nei titoli di testa è citato come Nadronico), Rodolfo Scarchilli, Mario Guizzardi. 


Lucio Fulci gira un Franco & Ciccio movie insolito, ambientato in Egitto, tra spie e bombe atomiche: Come rubammo la bomba atomica (1966), produzione italo - egiziana che parte da un fatto di cronaca accaduto in Spagna. Si tratta di una parodia dei film di spionaggio che vanno di gran moda, uno 007 comico, che vede la coppia siciliana alle prese con agenti segreti dai nomi storpiati: le Spectrales, James Bomb (interpretato da Adel Adham un vero e proprio sosia di Sean Connery), l’agente Derek Flit (il fumettista Bonvi, autore delle Sturmtruppen, prematuramente scomparso) e Modesty Bluff (Eugenia Litrel). Franco è un povero pescatore siciliano che in pieno Mar Mediterraneo vede inabissare un aereo che trasporta la bomba atomica. Tra l’altro recita una doppia parte, perché a bordo del peschereccio c’è il nonno - che muore per lo spavento - interpretato da un Franco Franchi invecchiato con il trucco e una parrucca bianca. Si sparge la notizia che la bomba atomica è caduta in mare e subito le maggiori potenze si mettono alla ricerca del prezioso ordigno. La Spectrales, una rete di spionaggio diretta da un misterioso Numero Uno, vuole trovare la bomba per ricattare gli Stati Uniti. Ciccio è un inetto agente dell’organizzazione, mentre Enzo Andronico, il suo braccio destro, si distingue per acume e scaltrezza.


Ciccio salva Franco dal naufragio, crede che sappia dove è caduta la bomba (in realtà non lo ricorda) e fa di tutto per farlo parlare. Ciccio si fa venire la brillante idea di realizzare una finta bomba che scatena le spie sulle loro tracce e mette tutti fuori strada. Julie Ménard è l’affascinante Cinzia che delizia gli spettatori di sesso maschile con alcune sequenze sexy (ma non più di tanto), fa innamorare Franco e Ciccio e li conduce tra le grinfie del Dottor Sì. Si scatena una lotta tra spie: James Bomb (Adham), Derek Flit (Bonvi) e Modesty Bluff finiscono per neutralizzarsi tra loro, mentre il Dottor Sì (Wahby) vorrebbe avere la bomba per poter riportare in vita le mummie sumere. Ottima la caratterizzazione fumettistica del Dottor Sì, con le mani a uncino, tipico scienziato pazzo che sembra uscito da una strip di Bonvi o di Magnus & Bunker. Tra i molti litiganti godono Franco e Ciccio, perché la bomba è sempre rimasta impigliata nella rete del peschereccio anche se nessuno lo sapeva.


Finisce che la recuperano involontariamente i nostri eroi e mettono su un’azienda multinazionale capace di ricattare le superpotenze. La sequenza finale vede Franco e Ciccio vivere tranquilli con la bomba atomica in giardino, contornati da belle ragazze e da servizievoli ex spie, consapevoli che il dito di Ciccio puntato sul meccanismo potrebbe attivare l’esplosione nucleare. Fulci inserisce in una farsa che smitizza i temi dell’action-movie spionistico un messaggio contro i pericoli della guerra atomica. Il film è girato in techniscope tra Egitto e Roma, con alcuni problemi perché Franco e Ciccio non amano viaggiare in aereo e non sono abituati ad andare all’estero. I due siciliani sono paranoici e pieni di pregiudizi, al punto che si portano da casa scatolette, pasta, acqua minerale e rifiutano di mangiare la cucina internazionale dell’Hotel Hilton. Si narra che credano alla favola degli egiziani che sarebbero soliti sodomizzare i turisti e per questo motivo non si fanno vedere molto in giro. Come rubammo la bomba atomica è uno dei più esilaranti lavori comici interpretati da Franco e Ciccio, pieno di ritmo e di gag indovinate, rapido, privo di tempi morti. Bonvi partecipa in via amichevole perché è scenografo e autore dei Caroselli interpretati dai due comici siciliani.

Franco, Ciccio ed Enzo Andronico (la spalla)

Il film è prezioso perché contamina il filone di James Bond con la comicità da avanspettacolo, tutta frizzi, lazzi e doppi sensi, tipica di Franco e Ciccio. Rarità da punto di vista produttivo, perché se sono frequenti le coproduzioni con Spagna e Francia è insolito vedere un lavoro italo - egiziano. Pellicola numero 59 della filmografia di Franco e Ciccio, girato negli studi Incir - De Paolis (interni) e in Egitto (esterni), cita a piene mani il cinema fantastico di Mario Bava e Antonio Margheritui, soprattutto per una fotografia dai colori accesi (giallo e rosso) e per molti manufatti artigianali: la bomba, la macchina per la tortura, il modellino di aereo, la macchina della verità, la mummia e il laboratorio del Dottor Sì. Il riferimento alla saga di James Bond è Agente 007 - Thunderball: Operazione tuono (1965) di Terence Young, il quarto film della serie. Lucio Fulci si dimostra grande regista quando gira suggestivi esterni tra il Nilo, il deserto del Sahara, la valle delle Piramidi e la Sfinge, al punto che in alcune sequenze sembra di intravedere le immagini del fiume Hudson nell’incipit de Lo squartatore di New York (1982) e il battello dei morti viventi in Zombi 2 (1979). Franco e Ciccio sono esilaranti, i doppi sensi si sprecano, le battute si susseguono senza soluzione di continuità. I ruoli dei due attori sono ancora indecisi, perché se è vero che Franco è il mamo, è anche vero che Ciccio non interpreta lo sciocco che si crede furbo, almeno non fino in fondo, perché pure lui non ne azzecca una.  Alcune battute esemplificative. Franco: “Morto un nonno se ne fa un altro”. Franco: “Luce! Luce!” Egiziano: “A noi!”. Franco: “Hai visto la bimba e te ne freghi della bomba!”. Franco (rivolto al Dottor Sì): “Bacio le pinze a vossia!”. Franco (al telefono con gli americani): “Se non ci date Ursula Andress a schifio finisce!”.

Lucio Fulci, il regista

La critica non parla molto della pellicola. Paolo Mereghetti si dimentica di citare il film. Pino Farinotti assegna due stelle senza dare giudizi di sorta. Morando Morandini concede due stelle e afferma: “Parodia di grana grossa, ma con più d’un colpo messo a segno, del genere di spionaggio alla 007”. Il più entusiasta è Marco Giusti: “Geniale parodia bandistica di bandiera italo - egiziana. Fulci riesce a imbastire una trama decente e delle gag notevoli che giocano con la povertà del tutto e la grossolanità della situazione. Fantastico”. Simone Buttazzi - che cita un mio giudizio per una pagina intera nella guida al film edito da Hobby & Work – afferma. “Il penultimo dei tredici film girati da Fulci insieme ai due pupi siciliani è anche uno ei più spassosi in assoluto, una vera chicca per cinefili a cominciare dalla precisione con cui smantella il mito di James Bond”. Inutile dire che siamo molto vicini ai pareri di Giusti e Buttazzi. Perdoniamo una trama modesta e fumettistica, perché il brio da avanspettacolo riscatta la povertà delle situazioni. Inoltre un grande regista come Fulci mostra una notevole perizia tecnica che anticipa il suo cinema più importante.

Per vedere il film integrale: http://www.youtube.com/watch?v=xvGN59hjDOg
Per comprarlo: in edicola collana Hobby & Work, a cura di Simone Buttazzi

Gordiano Lupi

giovedì 19 luglio 2012

Cocoon - l'energia dell'universo

Il cinema di Claudia 16
Recensione di Claudia Marinelli

Regia: Ron Howard
Sceneggiatura: Tom Benedek
Soggetto: dal libro “Cocoon” di David Saperstein
Montaggio:  Daniel P . Hanley, Mike Hill
Fotografia: Donald Peterman
Musica: James Horner
Produzione: USA 1985
Durata: 117 minuti
Oscar: come attore non protagonista a Don Ameche


Quasi trent’anni fa un giovane Ron  Howard, il Richie Cunningham di “Happy Days”, diresse con garbo questa favola delicata e paradossalmente spietata sulla vecchiaia. 
Art (Don Ameche) Ben (Wilford Brimley) e Joe (Hume Cronyn) sono amici di vecchia data e vivono in un  bel pensionato per anziani in Florida con tanto di piscina,  attività ricreative e il Mar dei Caraibi a due passi. Joe e Ben sono ancora sposati con Alma (Jessica Tandy) e Mary (Maureen Stapleton) mentre Art è scapolo. Stanchi di frequentare sempre la piscina del pensionato, i tre amici escono alla chetichella per andare a farsi il bagno nell’elegante piscina coperta di una lussuosa villa disabitata poco distante. Grande è  il loro disappunto quando scoprono che la villa è stata presa in affitto da Walter (Brian Dennehy) e i suoi tre cugini tra cui la bella Kitty (Tahnee Welch) per quasi un mese. Questi affittuari però non vivono nella villa, hanno infatti affittato la barca dello squattrinato capitano Jack perché li porti in mare aperto a recuperare degli involucri il cui contenuto rimane un mistero. Jack è incuriosito, ma anche molto attratto da Kitty e dunque accetta la situazione. Gli involucri vengono scaricati di notte dalla barca di Jack e portati nella piscina dove vengono aperti: essi contengono degli enormi bozzoli che i quattro cugini depositano con cura sul fondo della piscina.


I tre vecchietti continuano ad andare di nascosto a farsi il bagno nella piscina della villa e se all’inizio rimangono un po’ sconcertati nel trovare i bozzoli, ben presto si convincono che questi siano innocui, anzi l’acqua della piscina risulta più calda e il bagno ben più piacevole. Ben presto i tre vecchietti si sentono ringiovaniti, Joe addirittura completamente guarito da un brutta malattia. Riscoprono la carica sessuale persa da anni e coinvolgono le rispettive donne, che accettano il cambiamento con gioia e stupore. Anche loro vengono iniziate ai benefici della piscina. Una notte, al largo sulla barca,  Jack attratto da Kitty la vedrà spogliarsi dalla pelle terrena e diventare un essere di luce. Impaurito cerca di scappare ma Walter, il cugino più grande, gli spiega che sono extraterrestri provenienti dal pianeta Antarea, e che sono solo venuti a recuperare venti loro amici lasciati sulla Terra diecimila anni prima, quando Atlantide sprofondò negli abissi dell’oceano. Jack si convince a mantenere il segreto e i quattro cugini continuano le loro immersioni. Un giorno rientrano più presto del solito con il loro cargo e i vecchietti che se la stanno spassando in piscina, devono nascondersi in tutta fretta. Così scoprono la vera natura degli affittuari, ma promettono loro di mantenere il segreto.


Purtroppo i comportamenti degli arzilli vecchietti sono troppo “anomali” e Bernie, un altro amico che vive con la moglie nel pensionato e che è stato messo al corrente del segreto, sparge la voce dell’acqua miracolosa perché vuole fermare gli amici in quanto ritiene che i benefici siano contro natura. La piscina allora viene presa d’assalto dai pensionati desiderosi di ritrovare le forze e la salute perdute. L’affollamento impoverisce l’acqua e due antareani nei bozzoli muoiono. In tutta fretta i cugini devono riportare i rimanenti bozzoli in mare perché ormai non possono sopravvivere al viaggio. Walter però, che per la prima volta prova dolore vedendo morire un suo simile, sviluppa empatia per gli esseri umani e propone loro di portarli su Antarea, dove potranno vivere in buona salute per sempre. I tre amici e le tre loro compagne accettano l’offerta, anche se per Ben questo significa lasciare l’amato nipotino. C’è posto per trenta persone sulla nave aliena e il gruppo di vecchietti lasciano convinti l’ospizio, anche se la polizia sembra volerli fermare. Bernie saluta i suoi amici, ha deciso di non partire in quanto accetta di morire, anche se la sua amata moglie lo ha lasciato  all’improvviso. Il personale del pensionato scopre che gli anziani vogliono andarsene con persone sconosciute e chiama la polizia che insegue il battello dove stanno gli alieni e i terrestri, ma la navicella riesce a prenderli tutti e parte per il suo viaggio intergalattico.


Cocoon è una favola sulla vecchiaia nella nostra società opulenta, e sulla nostra condizione umana, raccontata con garbo attraverso l’abile e gentile regia di Ron Howard, reduce dal successo di “Splash” l’anno prima. Il film, a distanza di 27 anni dalla sua uscita, è ancora capace di farci passare due ore piacevoli, riflettendo su temi scottanti della nostra società e della nostra vita.  Gli anziani vivono in un bellissimo villaggio, hanno a disposizione cure mediche appropriate e tempestive, favolose piscine, attività di gruppo organizzate, pasti già pronti, il sole e il mare della Florida, ma sono emarginati. Solo Ben e Mary stanno vicino alla figlia e al nipotino, che vedono spesso e al quale sono affezionatissimi, ma gli altri residenti, pur avendo tante persone intorno, vivono lontani dal calore degli affetti familiari, e non hanno legami col mondo all’esterno. Il villaggio diventa così un bellissimo luogo dove aspettare la morte. Certo l’attesa è piacevole e confortevole, anche perché alcuni hanno ritrovato lì amici di vecchia data, ma si tratta pur sempre di attesa della fine. Quando la morte porta via un residente, gli altri hanno imparato a ignorarla.


Nelle nostre società opulente si vive sempre più a lungo, ed è stata una scelta vincente quella dell’umanità di puntare sulla “quantità” di vita. Per un bambino che nasce oggi si parla di una speranza di vita di cento anni. Purtroppo alla “quantità” non corrisponde sempre una “qualità” di vita che permetta alle persone di vivere così a lungo anche in buona salute e in modo produttivo. Spesso gli anziani, come Art, Ben e Joe, sono vecchi nel fisico, ma hanno ancora una mente giovane e accettano male le limitazioni che il corpo impone loro. La soluzione al problema sembra non poter essere umana. I bozzoli allora altro non sono che una nuova versione del tanto agognato elisir di lunga vita, impossibile da trovare sulla Terra. L’immortalità non appartiene a questo mondo, per ottenerla bisogna pagare un prezzo: rinunciare alla nostra umanità.  
È giusto?Il film pone la domanda ma dà due risposte. Per il gruppo di anziani che lasciano la Terra il prezzo da pagare sembra giusto e non solo a coloro che non hanno più niente da perdere, anche per Ben e Mary, che lasceranno la figlia e il nipotino, la scelta non è molto drammatica. Bernie invece, anche se è rimasto solo perché sua moglie Rose è morta, decide di non partire: “La mia casa è questa, il mio posto è qui.” Risponde agli amichi che gli chiedono il perché della sua scelta. Lui ha accettato la sua condizione umana di essere mortale e limitato, trova giusto proprio perché è uomo, di dover morire, ma augura agli amici di trovare ciò che cercano. Questo film, forse all’insaputa dello sceneggiatore e del regista, annuncia già nel 1985, quesiti morali attuali e importanti che ci dobbiamo porre di fronte ai nuovi traguardi delle biotecnologie: fino a che punto è giusto manipolare il corpo umano per allungare la vita? Se l’immortalità è raggiungibile solo spogliandoci della nostra umanità, è giusto ambire ad un tale traguardo? Vi sono eminenti personalità della comunità scientifica, come ad esempio Ray Kurzweil, che affermano che presto si fonderà l’intelligenza biologica con quella artificiale, e l’uomo potrà ambire alla vita eterna in quanto potrà rimpiazzare, man mano che si deterioreranno gli organi del suo corpo incluso il cervello, le parti vecchie con congegni artificiali non biodegradabili. L’elisir di lunga vita lo troveremo dunque impiantando nel nostro corpo congegni avveniristici? Interessante, come tematica secondaria, è la riflessione sul dolore e la perdita. Gli alieni non conoscono la morte e dunque neanche il dolore per la perdita di un loro simile.
Walter è molto arrabbiato perché l’invasione di vecchietti nella piscina ha impoverito l’acqua e due amici dell’antareo muoiono. Per la prima volta Walter piange ed è un’esperienza nuova per lui, dolorosa ma anche illuminante. Solo dopo aver provato dolore comincia a provare empatia per gli esseri umani. Se non si muore, non si soffre neanche e se non si soffre non si può capire la sofferenza e Walter è addolorato per i suoi amici, ma anche grato per aver avuto la possibilità di capire un sentimento che sul suo pianeta non avrebbe mai avuto l’occasione di provare, dunque offre agli umani di portarli su suo pianeta. L’empatia dunque sarebbe un sentimento che gli esseri umani imparano appena nascono proprio perché sono mortali.
Gli interrogativi posti e il modo di raccontare la storia sono i punti forti di questo lungometraggio, che però si perde un po’ alla fine quando vediamo l’intervento della polizia che vuole a tutti i costi fermare i vecchietti che si vedono costretti a scappare. La sceneggiatura allora diventa, negli ultimi dieci minuti, un film d’inseguimento con tanto di poliziotti armati ed elicotteri, nella tradizione hollywoodiana più “di cassetta”.
Possiamo comunque affermare che “Cocoon”, come un buon film di fantascienza, pone interrogativi inquietanti e anche affascinanti, e lo fa facendoci sorridere e regalandoci ore di puro divertimento, e per fortuna segue la tradizione più profonda del genere, che è quella di interrogarsi sul nostro futuro e di esprimere le più profonde aspirazioni e le più inquietanti paure del genere umano.

martedì 17 luglio 2012

Horror Italiano Volume 3 - Prima recensione!

Storia del cinema horror italiano da Mario Bava a Stefano Simone Di artigiani, finestre che ridono e cannibali

da http://www.cinergie.it/?p=1157#.UAU5hqOvyLM.facebook


Sembra un po’ schermirsi Gordiano Lupi quando precisa che la sua pubblicazione non è accademica, ma ha un taglio molto popolare, divulgativo e conoscitivo. La sua Storia del cinema horror italiano da Mario Bava a Stefano Simone. Vol 3: Joe D’Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato, Umberto Lenzi e il cannibal movie (Piombino, Edizioni il Foglio, 2012) si inserisce infatti in quella riflessione sul cinema che nasce “dal basso”, riprendendo la produzione dei cineasti alla luce di un salutare periodo di riflessione tra la prima uscita in sala e il culto che circonda oggi alcuni degli autori di quella generazione. Il che non significa necessariamente fare del revisionismo, quanto piuttosto aggiungere prospettive ad un dibattito ancora vivo e che oggi è in grado di dar voce, in modi e con mezzi diversi, anche al pubblico (dal lato della critica “professionale” è del resto sufficiente leggere le recensioni dell’epoca per avere ben chiaro l’evidente accanimento nei confronti di certi filoni in generale, e di alcuni registi in particolare).
Un volume perfettamente coerente con il più ampio discorso sui (sotto)generi che comprende le  retrospettive dedicate a tanto cinema di serie B (e giù giù fino alla Z) da parte di festival paludati; la rivalutazione, anche in ambito accademico, di filmmakers etichettati come “cult”; lo sfrenato amore per “quel cinema” da parte di colleghi registi ormai a loro volta di culto (Tarantino in primis); il lavoro sulle nicchie portato avanti da anni da progetti editoriali come Nocturno; il fandom e pure gli Aca-Fan, per usare un’espressione che Henry Jenkins utilizzava qualche tempo fa.
Lupi, che in molti conoscono per il suo lavoro di traduttore del blog dell’attivista cubana Yoani Sánchez (www.desdecuba.com/generaciony) e di direttore editoriale delle Edizioni il Foglio (www.ilfoglioletterario.it) ha all’attivo una consistente produzione letteraria e saggistica, anche in ambito cinematografico. In questo terzo volume aggiunge un ulteriore tassello al compendio sul cinema horror nostrano che con i primi due libri aveva già toccato il gotico (Vol 1.) e la produzione di Argento e Fulci (Vol. 2), e che prevede altre tre uscite dedicate a splatter, esorcistico e horror metropolitano (Vol. 4), gli anni Ottanta (Vol. 5) e dai Novanta ad oggi (Vol. 6).
Al centro del testo è la produzione di Aristide Massaccesi, tra erotismo e bizzarrie come Anthropophagus (1980) e Porno Holocaust (1981), così come il gotico rurale avatiano, il filone cannibalico con focus sulle produzioni di Deodato e Lenzi, tra artigianalità e improvvisazione. Come ricorda lo stesso Roger Fratter nell’introduzione al volume, a proposito di Joe D’Amato: “Di lui ho sempre apprezzato in modo particolare ‘l’arte di arrangiarsi’, cioè la capacità di realizzare film con pochi mezzi” (pp. 7-8). C’è un senso di amarcord nel ripercorrere com’era fare quel cinema, quell’essere stati in certi casi (com)presenti ai cineasti quando erano al lavoro sui film, magari, ricorda Fratter, incontrandoli nei corridoi delle salette di montaggio.
E se, come accade spesso in questi casi, la distanza nei confronti dell’oggetto d’analisi è più ridotta e il giudizio personale (condivisibile o meno) più marcatamente evidente, nondimeno è altrettanto chiaro che la riflessione di Lupi tenda a fagocitare generi e suggestioni in modo non dissimile da quello stesso cinema su cui si concentra. Ammissioni che, a distanza di anni, arrivano del resto per bocca degli stessi protagonisti, quei registi che, con un po’ di nostalgia, oggi rivelano senza pudore la loro filosofia: come hanno fatto Enzo Castellari e Sergio Martino in occasione dell’ultima edizione del Festival Cine-Excess (www.cine-excess.co.uk) a Londra (24-26 maggio 2012), quando hanno ampiamente discusso di “furti” e copie nei confronti del cinema americano, ma i cui prelievi erano effettuati con spirito avventuroso e, appunto, artigianale più che malizioso. Ricordi di un tempo in cui un film poteva essere costruito a partire da una sequenza d’azione che sembrava giustificare tutto il progetto. Un tempo in cui, se gli Americani  mettevano in scena gli inseguimenti con le Mustang, noi dovevamo metterci dieci Alfetta. Un tempo in cui “loro” avevano gli effetti speciali e “noi” i cascatori e le frattaglie. Una riflessione in parte oggettivamente vera, in parte mito. Come che sia, “Print the legend!”, ha detto qualcuno un po’ di tempo fa.

Nicolò Gallio

sabato 14 luglio 2012

Mangialibri sul mio Horror volume 2

di Michelangelo Pasini

Secondo capitolo della Storia del Cinema Horror Italiano, serie di volumi scritta e curata da Gordiano Lupi, un’avventura decisamente ambiziosa. Mentre il primo libro era una disamina sul cinema gotico italiano dei Freda e dei Bava, questo si concentra esclusivamente sulla vita e la carriera di due mostri (tanto per rimanere in ambito horror) del cinema di paura della nostra penisola. Signori e signore, ecco a voi Dario Argento e Lucio Fulci. I re indiscussi del cinema dell’orrore italiano quando ancora sapevamo esportare dei prodotti di genere fatti con poche lire ma dalla caratura decisamente internazionale. Titoli come “Inferno” e “L’uccello dalle piume di cristallo” di Dario Argento e “L’aldilà” e “Zombie 2” di Lucio Fulci non solo sono diventati vere e proprie pellicole di culto per schiere di cinefili di tutto il mondo, ma sono ancora in cima alla lista dei film più citati, omaggiati, copiati dai registi horror non solo europei ma anche americani e asiatici…
Nel progetto di Gordiano Lupi di sviscerare la storia del cinema horror italiano in sei volumi è evidente la necessità di essere contemporaneamente il più completi possibile e dedicarsi all’approfondimento ove sia necessario. Il fatto che tutti gli altri volumi della collana siano dedicati più a un periodo storico o a un sottogenere che a singoli registi e che questo sia l’unico (fatta eccezione per il terzo libro che sarà su Joe D’Amato e tutto il cannibal movie) che si concentra su vita morte e miracoli di due cineasti è il termometro dell’importanza di Dario Argento e Lucio Fulci all’interno del vasto panorama del cinema di genere italiano. Del primo, dopo una veloce disamina sulla sua carriera in generale, l’autore scegli di soffermarsi più a lungo su film come “Inferno”, forse uno dei suoi indiscussi capolavori, e su pellicole invece più controverse come “Tenebre”, “Phenomena” e “La terza madre”.  Non manca poi un capitolo interamente dedicato all’ultimo Dario Argento, quello, per intenderci, da “Il Cartaio” a “Dracula 3D”, passando per l’infelicissimo “Giallo”. Il capitolo dedicato a Lucio Fulci è una riduzione del volume, sempre scritto da Gordiano Lupi (in collaborazione con As Chianese), “Filmare la morte”. Interessante, anche se forse un po’ breve, è il contributo di Dardano Sacchetti, sceneggiatore di film come “Il gatto a nove code” di Dario Argento, “Roma a mano armata” di Umberto Lenzi  e “Reazione a catena” di Mario Bava, sul suo travagliato rapporto di amore e odio con il regista di “Suspiria”. Una testimonianza (ottimamente scritta, ma perché sottolinearlo?!?) nella quale si respirano le idiosincrasie del cinema bis italiano di cui tanti sono innamorati.

da: http://www.mangialibri.com/node/10669 

I due sergenti del generale Custer (1965)

di Giorgio Simonelli


Regia: Giorgio Simonelli. Soggetto: Marcello Ciorciolini. Sceneggiatura: Marcello Ciorciolini, Giorgio Simonelli, Amedeo Solllazzo. Fotografia: Isidoro Goldberger, Gianni Bergamini (operatore). Montaggio: Franco Fraticelli. Ispettore di Produzione: Piero Picuti. Segretario di Produzione: Giorgio Susini. Maestro d’Armi: Enzo Musumeci Greco. Scenografia, Arredamento e Costumi: Nedo Azzini. Architetto spagnolo: Ramiro Gomez. Aiuto Regista italiano: Giuliano Carnimeo. Aiuto Regista spagnolo: Francisco Ariza. Segretaria di Edizione: Paola Salvadori. Truccatore: Franco De Girolamo. Effetti Speciali: Armando Grilli. Musiche: A. F. Lavagnino. Direttore di Produzione: Mario Mariani. Teatri di Posa: Titanus - Appia,  Elios (Roma). Produzione: Fida Cinematografica (Roma) Producciones Cinematograficas Balcazar (Barcellona). Interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Moira Orfei, Margaret Lee, Ernesto Calindri, Fernando Sancho, Aroldo Tieri, Riccardo Garrone, Michele Malaspina, Gianluigi Galiardo, Franco Giacobini, Dina Loy, Nino Terzo, Alfio Caltabiano, Rino Genovese, Armando Curcio, Nino Fuscagni, Gina Mascetti, Enzo Andronico, Pasquale Basile.
  
Il film è uscito in edicola in questa versione

Giorgio Simonelli è un regista che comprende le doti comiche di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, dirigendoli in alcune farse dotate di buone trame, girate con garbo e tecnica sopraffina. I due sergenti del generale Custer è una commedia western, ai limiti della farsa, contaminata da elementi provenienti da cinema muto, pochade e avanspettacolo. La pellicola riproduce con fedeltà una corretta ambientazione western ai tempi della guerra di secessione tra nordisti e sudisti, citando vere battaglia combattute tra il generale Custer e il generale Lee.

Ciccio, Franco e Sancho nella comica fucilazione

Franco e Ciccio sono i pavidi cugini La Pera, in fuga dalla Sicilia per non fare il militare, arruolati di forza nell’esercito federale. Tentano ogni mezzo per disertare, vengono scoperti e imprigionati, ma quando sono in attesa della fucilazione il generale decide di usarli per un piano contro i sudisti. Servono due soldati stupidi insieme a due nordisti geniali per confondere le acque e portare i confederali alla vittoria. Il sergente (Fernando Sancho) è una spia dei sudisti, riferisce i piani al generale Lee, ma la dabbenaggine di Franco e Ciccio viene scambiata per genialità, al punto che sono loro a trovare involontariamente il modo per vincere la guerra. In questo pasticcio western ci sono anche gli indiani, una spia come Margaret Lee, chiamata La Lince, aiutata dall’amica Moira Orfei. Inutile dire che come sempre la trama conta poco, anche se è ben costruita e realizzata con dovizia tecnica da un buon regista che si appoggia su una solida produzione. Il film si basa su molteplici episodi comici con protagonisti Franco e Ciccio. Sin dalle prime scene vediamo un compassato Ernesto Calindri - attore di prosa noto per i Caroselli del Cynar - nei panni di un colonnello nordista, ma anche Fernando Sancho, un sergente vittima preferita della coppia comica siciliana e perfido traditore. Franco e Ciccio storpiano il suo cognome con l’offensivo epiteto siciliano di sergente Fetuso.


Nino Terzo è un soldato nordista che tartaglia e si presenta con la consueta voce afona. Ottima la battuta che Franco gli rivolge: “Senti…nella! Sentinella! Senti, non sei una sentinella? E allora perché non senti?”, che ricorda il motto di Totò: “Ragioniere, ragioni. Non è un ragioniere? E allora perché non ragiona?”. Battute di Ciccio quando vengono scoperti a disertare: “È stato uno scherzo, una bambinata. Sembro cretino, invece lo sono”. Franco: “Ciccio, i primi due siamo!”, quando il colonnello afferma che sono i primi disertori nordisti della storia. Kocis figlio di Kocis è un buffo indiano apache amico di Franco e Ciccio che li aiuta durante la difficile missione. Altre battute di Franco: “Missionari siamo! A me mi prude morire da prode!”. E anche: “Due coyote come noi dove li trova?”. “Con i cugini La Pera bel tempo si spera!”. I tempi comici sono ottimi, frequenti i siparietti da avanspettacolo western insieme a Fernando Sancho e in collaborazione con Nino Terzo. Ricordiamo le fosse scambiate per vasche da bagno e il plotone di esecuzione mentre fa le prove di fucilazione. Aroldo Tieri e Riccardo Garrone sono bravi ma poco utilizzati come spalle comiche, due nordisti geniali che dovrebbero portare a termine il piano ma vengono sempre catturati per colpa di Franco e Ciccio. Margaret Lee è la signora Smith, detta La Lince, che fa parte del servizio segreto, sensuale come sempre, non perde l’occasione per mostrare le lunghe gambe quando deve vestire come una squaw indiana. Moira Orfei è altrettanto bella, nei panni dell’amica che aiuta Franco e Ciccio a portare a termine la missione. Enzo Andronico è un ufficiale sudista ma non si vede molto e non riveste un ruolo importante nell’economia della pellicola.


Ottimo il gioco di parole sul generale Lee: “Là c’è Lee”, che Margaret Lee mette in scena insieme a Franco Franchi, ma anche la scena del ballo a casa della spia è molto divertente. Non da meno la ricostruzione della battaglia da parte di Franco e Ciccio che con tempi da avanspettacolo usano una tavola imbandita per spiegare la guerra. La trippa diventa la truppa e alla fine le torte in faccia si sprecano durante una comica fuga da cinema muto. Un momento esilarante vede Ciccio truccato da medico e Franco da ragazza, all’interno del saloon, quando devono vedersela con il sergente traditore. Divertente la parte indiana con lo scambio di sangue, i ridicoli segnali di fumo, le trappole nella foresta che catturano i nostri eroi restano catturati e il personaggio fumettistico di Bufalo Nervoso. Inutile dire che Franco e Ciccio uccidono nemici involontariamente e catturano il sergente traditore solo per merito delle ragazze, ma alla fine vengono decorati al forte e promossi sergenti. Il finale ricorda le comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy, quando Franco e Ciccio sono invitati a sparare un festoso colpo di cannone. I due inetti soldati puntano il cannone sul deposito di munizioni, tutti saltano in aria, ma la comicità è da cartone animato, slapstick, quindi l’effetto esplosivo vede la truppa affumicata e i due sergenti ridotti con i vestiti a brandelli.


La pellicola gode di un’ottima ricostruzione d’epoca, i costumi sono puntuali, l’ambientazione corretta, la colonna sonora suggestiva, mentre gli esterni girati in Spagna contribuiscono a rendere veritiero il clima  western. Il fortino nordista, il villaggio indiano, il paese con il saloon, le divise da cow-boy e da soldati, tutto è ben riprodotto, senza carenza di mezzi. La comicità a base di scazzottate e di sparatorie convenzionali anticipa la fine del genere western, al punto che molte sequenze verranno riproposte da Enzo Barboni con la coppia Spencer - Hill. Le parti che riproducono battaglie sono credibili, un maestro d’armi che conosce il suo mestiere usa al meglio le comparse, mentre Simonelli guida le scene d’azione con esperienza e maestria.
Paolo Merghetti dimentica di citare il film nel suo monumentale Dizionario. Pino Farinotti concede due stelle e afferma che la pellicola è costruita attorno ai “soliti equivoci”. Morando Morandini assegna una stella e mezzo, ma non perde tempo a commentare. Neppure Marco Giusti cita il film su Stracult. Il nostro lavoro colma una lacuna critica su una dignitosa pellicola di genere che merita di essere riscoperta e rivalutata.

Per vedere le prime sequenze del film: http://www.youtube.com/watch?v=6ImlAor1anU

Gordiano Lupi