mercoledì 29 agosto 2012

Il Foglio di oggi parla del mio Horror 3

“Storia del cinema horror italiano. Da Mario Bava a Stefano Simone”, di Gordiano Lupi - (terzo volume, Eif, 234 pp., 15 euro)





Dopo il gotico e il thriller alla Dario Argento, la terza delle cinque puntate dell’opera di Lupi sulla storia dell’horror made in Italy arriva a un gruppo di grandi artigiani del cinema particolarmente prolifici e capaci di spaziare da un genere all’altro, anche se all’horror sono legati alcuni dei loro titoli più famosi. Uno di questi nomi è stato da tempo ammesso nei salotti del cinema alto: Pupi Avati, inventore di un peculiare “horror padano”, in cui la paura risalta maggiormente per il contrasto tra le trame e l’ambientazione nella più paciosa campagna emiliana (d’altra parte il delirio e l’assurdo sono anche legati al patrimonio leggendario popolare di quella terra). Aristide Massaccesi, Ruggero Deodato e Umberto Lenzi hanno invece un’immagine da registi per un pubblico di bocca più buona, e in particolare Massaccesi col suo nome d’arte di Joe D’Amato si è fatto anche una fama da Ed Wood italiano. Ma lo splatter feroce del “cannibal movie” da loro inventato è stato ora rivalutato dalla scuola di Quentin Tarantino, e alcuni tra i film più noti del più celebrato horror made in Usa non sono in realtà altro che “omaggi” non dichiarati proprio a questi autori italiani. Da “Pet Sematary” di Stephen King, che riprende l’idea di “Zeder” di Pupi Avati; a “The Blair Witch Project”, in cui è copiato di sana pianta l’espediente alla base di “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato.


 

da IL FOGLIO
di Maurizio Stefanini - 25 agosto 2012

lunedì 27 agosto 2012

Bellezza e finzione di Marilyn Monroe

di Guillermo Cabrera Infante
da Cine o sardina (Santillana - Spagna, 1997)

 
Nessuno piange più Marilyn Monroe, eccetto forse Joe Di Maggio, ma tutti la evochiamo, come la luna di ieri. Oggi la guardiamo e la ammiriamo, la ammireremo sempre nel vederla al cinema, unica e diversa, come la prima volta. La osserviamo ostentare una splendida volgarità mentre cammina per strada nel Niagara, tutta curve: carne così mobile sopra cui si poteva sentir fremere la pelle sotto la tela aderente. Una volta l’applaudimmo, molte altre volte la applaudiremo, vedendola uscire, mentre scende e fa vibrare l’altissima scalinata al neon, una bionda tutta gambe, ne Gli uomini preferiscono le bionde: cento amanti, cento diamanti e una ragazza che è un gioiello. Dovremo proteggerla e la proteggeremo nella sua perversa innocenza carnale di Fermata d’autobus. Cercheremo di accoglierla con la paternità incestuosa di Clark Gable ne Gli spostati. Ma in realtà siamo in grado di sfruttare solo la sua visione di giovane animale, implorante e devastatrice (“Do I have to go, Uncle Leon?”) della bella ragazza che resta sola, Cappuccetto tra i lupi, con lo stanco occhio senile del sesso: siamo come il veterano Louis Calhern in Giungla d’asfalto. Sono suoi gli oscuri occhi del voyeur condannato a scrutare in eterno quel radioso oggetto del desiderio. Quello è lo sguardo di impotente sociale di Alonzo Emmerich, che ancora desidera la ragazza bionda che scomparirà per sempre davanti ai suoi occhi, come il resto che si spegne: il mondo concepito come una lanterna sordida che fu una lanterna magica, quella è la visione dello spettatore cinematografico. Vostra e mia, di noi voyeurs di un tempo che ancora siamo gli stessi guardoni: quella donna è nata solo per i nostri occhi.


Marilyn Monroe fu e sarà sempre per tutti soltanto un’ombra. Adesso si tratta di spiegare il fascino, ossessivo e ricorrente come la luna, di quell’ombra, di quelle ombre o di una sola ombra pallida che dura più di un quarto di secolo nelle reticenti retine e la sua perenne manifestazione tra noi che siamo i suoi medium. Quella presenza sovrumana, che va oltre la morte e l’oblio, è il mito manifesto che adesso chiamiamo Marilyn Monroe.


La donna - la tenue apparenza dietro la presenza potente dell’ombra - nacque e morì come poche stelle nel cinema americano: in pieno Hollywood. Il mito sorse, come tutti i miti, ovunque, ma contemporaneamente: tutti preferivano quella bionda. La sua esatta geometria ha la forma del circolo magico: la sua circonferenza è ovunque e il suo centro in nessun luogo. Nell’antichità, quando accadeva questo fenomeno unico l’apparizione era una dea, o un dio. (Ma, realmente Marilyn Monroe, per mortificare Unamuno, era tutto meno che un uomo). Nel Medio Evo questa manifestazione sarebbe quella della Vergine, anche se è ridicolo pensare a una Marilyn Monroe vergine. Non potrebbe essere neppure, come Greta Garbo, una sorta di vestale vegetariana. Marilyn Monroe, come Afrodite, è l’apogeo dell’amore: nata dall’amore, per l’amore. Come era possibile pagare per quell’amore vicario (lo è ancora, sebbene adesso sia più caro: i biglietti costano ovunque uno sproposito) lei era soltanto una hetaira prodigiosa, come una Cleopatra bionda, per esempio. Vale a dire, una semplice prostituta. Marilyn Monroe, bisogna dirlo chiaro, era una puttana, puttana platonica, femmina cosmica. Lei era la rappresentazione virtuale della donna nata per il vizio e per la virtù dell’amore. Venere non era da meno. Marilyn non fu la donna che inventò l’amore, ma sembrava aver preso molto presto la patente. Chi non è stato innamorato di Marilyn Monroe o di una delle sue riproduzioni umide di acqua ossigenata?


Non voglio stare a parlare delle ultime rivelazioni sulla vita luminosa e sordida di Marilyn Monroe, la donna, come ha fatto Norman Mailer nel suo disonesto e ben noto omaggio pubblico. Cosa importa adesso se lei si suicidò o se la fece uccidere Robert Kennedy per conto del fratello Jack perché non rovinasse la futura carriera politica di Ted, il terzo Kennedy? Non m’interessa neppure parlare dei documenti genuini che riguardano la fanciullezza infelice, la pubertà precoce e la gioventù rovinata di Norma Jean Baker o Mortesen o come altro si chiamava. Che c’importa di sapere se sua madre morì pazza? O se da bambina Normita fu violentata da un ospite brutale o esperto? O se da donna immatura dovette affrontare umilianti compromessi sessuali per sopravvivere, fare carriera e diventare famosa? Sono gli inconvenienti del mestiere di attricetta con più tette che talento. Non m’interessa sapere se Norma Jean, Marilyn per sempre e per tutta l’eternità (nessuno ricorda di certo le altre Marilyns del cinema: Marilyn Maxwell o la stessa Marilyn Miller, alla quale deve il suo nome, e neppure la gloriosa Kim Novak che si chiamava proprio Marilyn Novak), la Marilyn per antonomasia, ingegnosa e cinica, appena vide la stella affissa alla porta del camerino a indicare che era una movie star, pronunciò davvero la sua promessa d’amore: “Adesso lo farò solo con chi mi piace”. Lei, meretrice, aveva praticato la fellatio per la causa del trionfo, ma quella era un’altra donna e l’oltraggio si verificò in un altro mondo, tra le nebbie, dietro lo schermo. Inoltre quella femmina è morta, come ben disse Kit Marlowe quasi quattrocento anni fa, parlando di una donna ben diversa. Sì, è vero che Marilyn, la creatura carnale, è morta. Ma pare una finzione, perché sembra così viva: nessuno può dire che di lei non resta niente, tranne un certo numero di pellicole e molte foto: poche donne della storia sono state così tanto fotografate. Inoltre, chiaro, resta il ricordo. Tutti hanno un ricordo ricorrente di Marilyn Monroe. Solo le sue iniziali sono la doppia entrata al cinema della sua memoria.  


In ogni caso, Sam Shaw - fotografo, produttore di pellicole e presentatore di attori - conserva ricordi precisi di Marilyn Monroe che risultano vaghi di fronte alle sue foto precise. Camminando per Manhattan, vicino al Central Park, a inizio estate, Sam mi disse: “In una di queste panchine feci alcune foto a Marilyn. Era estate. Marilyn era sin troppo vestita  se la paragoniamo a come vestono le donne adesso, ma per quel periodo storico era nuda. Una volta Marilyn si presentò con una pelliccia di visone. Era imprevedibile. Era estate e il calore era soffocante. Quando le chiesi come potesse portare quel cappotto così pesante, lei lo aprì. Sotto non aveva niente. Ma proprio niente! Era il suo scherzo preferito. Quello stesso giorno delle foto nel parco portava un semplice vestito senza niente sotto. Non usò mai le mutandine. Quella sera camminò per il parco, sedette in una panchina, lesse o fece finta di leggere il quotidiano. Sedette un poco insieme a due fidanzati e io le feci alcune foto, proprio lì, accanto alla coppia. Nessuno dei due la riconobbe! Credo che non la guardarono neppure, ed era ai massimi livelli sia come stella che come donna. La Marilyn della vita quotidiana era timida, inibita, sembrava un’altra persona. Era la sua immagine cinematografica, fotografica, che la faceva diventare grande, potente, enorme. Come dice Howard Hawks, la macchina da presa si innamorava di lei e - grazie alla macchina da presa - ci innamoravamo anche tutti noi. Quella era la sua magia”.


Marilyn, da viva, non emanava un buon profumo. Era lo schermo a trasformarla nel profumo di un’immagine, nell’aria del cinema, in una zona aurea. Tutti scattammo foto di lei con la nostra Zeitgeist, di Seiss-Ikon. Il ricordo di Tony Curtis, antico corteggiatore, è ben diverso e per niente deferente, anzi è irriverente. I due recitarono insieme alcune torride scene d’amore in una Miami fasulla in A qualcuno piace caldo: lei era quasi nuda, lui portava occhiali che nascondevano la simulata passione. “Come fu il bacio di Marilyn?”, chiesero a Tony Curtis. “Come un bacio di Hitler, ma senza baffi”, confessò Curtis che è ebreo. “Inoltre non usava deodorante”. Proprio come Hitler.


Verso la fine della sua carriera - come dire, della sua vita - Marilyn diventò un’attrice grossolana e approssimativa. Forse era soltanto indifferente. Nella scena con Curtis, durante la quale lui la fa innamorare mentre mordicchia una magra coscia di pollo, lei non doveva pronunciare più di una o due battute. Ma sbagliava sempre, come se lo facesse di proposito. Il regista dovette far ripetere la scena ben 27 volte per colpa di Marilyn e Tony Curtis si vide obbligato a mangiare altrettante cosce di pollo fritto. Alla fine lui non avrebbe voluto darle morsi d’amore ma di rabbia. Curtis non fu cortese, ma Billy Wilder, il regista, fu tagliente: “Lei costa molto ed è poco professionale, questa è la realtà. Tutti pagano per vedere Marilyn vestita, ma chi pagherebbe per vedere mia nonna in biancheria intima?”.


Wilder creò l’immagine più memorabile di Marilyn Monroe in movimento. Si tratta di quella sequenza in cui lei cammina per una finta strada di Manhattan e da una graticola del marciapiede un Eolo malizioso e sollecito soffia verso l’alto una raffica di aria calda, che solleva la sua gonna e mostra i suoi polpacci pallidi per rivelare le sue cosce aperte fino alle pudiche mutandine intonse, bianche come le sue gambe perfette. Quella visione è immortale: è identica alla ricostruzione ideale che fece Botticelli della nascita di Venere nel mar Egeo: Marilyn è un’Afrodite urbana che adesso sorge dalla confusione del subway.


Poco tempo fa una giovane pellicola francese (Wilder potrebbe essere il nonno del regista e di quasi tutti gli attori) intitolata Diva, faceva camminare gratuitamente per una Parigi irreale una bionda irreale, quando l’aria della metropolitana le sollevava la gonna fino ai fianchi, in un colpo di nostalgia che non fa venir meno la citazione. All’altro lato dell’Atlantico il pubblico di un cinema di Manhattan, neofiti più che cinefili, rise di gusto. Il fatto era che avevano riconosciuto l’omaggio francese alla Venere americana. Lo stesso Wilder, in quella sua ultima commedia realizzata insieme, A qualcuno piace caldo, dava una sculacciata metaforica a Marilyn e al tempo stesso strizzava l’occhio allo spettatore complice. Si tratta di quella scena in cui una Monroe molto graziosa, interpreta una musicista che suona male il suo ukulele mentre a lei si potrebbe suonare bene tutto, cammina bella e ingenua lungo la banchina simulata verso la macchina da presa. La sua distrazione è totale: come se fosse la stessa ragazza miope di Come sposare un milionario, quella biondina che senza lenti inciampava nella sua ombra. Adesso la splendida creatura bionda avanza verso di noi, il pubblico, ancora innocente. Passa vicino al treno e dai vagoni escono due sbuffi di vapore, uno per ogni natica morbida, con un fischiare intenso di freni. Lei sussulta spaventata e dopo continua il suo cammino, ma il suo culo non sfuggì a migliaia di occhi sorpresi.


In ogni caso nessun omaggio è migliore del ricordo: ricordare MM quando M morta era M viva. Quel ricordo, quel tesoro, questo privilegio, appartengono a G. Caín (pseudonimo di Cabrera Infante critico di cinema e sceneggiatore, ndt), quel fanatico furibondo che aveva nel suo studio tre foto, dico tre: Marilyn nuda nel ben noto calendario, tutta tette e cosce morbide. Marilyn vestita in A qualcuno piace caldo (come dire, peggio che nuda: quasi vestita e con tette grandi), Marilyn foderata di pelle, come piaceva a Caín, discepolo di Sacher-Masoch, masochista memorabile: Venere di cuoio. Quel Caín, che al contrario di Sam Shaw non conobbe mai Marilyn, che mai soffrì per averla baciata come Tony Curtis, che, proprio come Mailer, non riuscì a rendersi conto che la stella era morta, ma che fu sempre consapevole di cosa rappresentasse da viva - un mito del secolo -, quel Caín, atroce alter ego, scrisse nel 1961 un elogio per niente funebre (non c’era motivo di essere a lutto: Marilyn non era ancora morta). Ma la lode si trasformò in un problema e il cronista fu rapito dal labirinto delle sue ossessioni: Marilyn divenne un’incarnazione della fatale dea bionda pagana che nacque con Elena per perdere Paride, farsi beffe del marito Menelao e distruggere Troia. Secondo Caín, il mito, già cristiano, diventa la Isotta del Medio Evo, tutta filtri e musica di Wagner. Nella leggenda rinascimentale del dottor Faust, è il fantasma della Elena bionda, che fa supplicare all’alchimista moribondo di essere reso immortale con un bacio, come nel finale felice di una pellicola qualsiasi. E con il cinema ritorna la dea bionda (per certo, da Jean Harlow a Kim Novak, tutte furono false bionde: solo Ginger Roger era bionda reale, biondi i suoi capelli, bionda la sua peluria) o la donna bionda come ideale erotico e segno fatidico che si trasforma in un simbolo, Marlene Dietrich, per esempio. Quella incarnazione ebbe il suo culmine proprio in Marilyn Monroe. Dopo di lei il diluvio di bionde bagnate dalla pioggia del tempo e dalla moda (una sfilata di facsimili: Beverly Michaels, Cleo Moore, Joy Lansing, Barbara Nichols, Jane Mansfield, Mamie Van Doren, e con un salto atlantico, Diana Dors e Anita Ekberg, e ancora molte altre che la memoria umana non può ricordare), tutte bambole di paglia, come Bernandette Peters, bambolina di New York: capelli tinti, occhi rotondi, bocca rotonda, mascella volitiva, e quella Mae West di campagna che è Dolly Parton, nana pneumatica che minaccia di sgonfiarsi con il suo canto, non con il suo incanto, i suoi seni come un busto di gomma che perde aria.


Adesso, a quasi mezzo secolo dalla sua morte, si sa che l’elogio di Caín fu come un hybris: dopo quella vetta tutto sarebbe stato decadenza. Marilyn Monroe, bisogna ammetterlo senza problemi, è il vertice, la punta dell’iceberg nordico, l’Everest mitico che bisogna scalare (osservando le sue foto in bianco e nero, a colori, in tutte le sue pellicole e in televisione). MM non è il suo breve epitaffio ma una chiave: Marilyn è l’ultima bionda radiosa, ma anche la bionda eterna, l’immortale, il mito della donna bionda, la dea bianca, la luna che nasce, che rinasce e che in lei stessa modifica ogni visione.

Traduzione di Gordiano Lupi

L'autore del pezzo:

Guillermo Cabrera Infante, in arte (quando parlava e scriveva di cinema) G. Caín 

giovedì 23 agosto 2012

Il ritorno di Zampaglione

Federico Zampaglione

Tulpa (2012) è l'ultima opera di Federico Zampaglione, che verrà presentata al Frightfest di Londra, scritto e sceneggiato con la collaborazione di Dardano Sacchetti, interpretata da una eccellente Claudia Gerini, ma non ha niente a che vedere con Shadow e con l’horror d’atmosfera. In ogni caso Tulpa cita il cinema italiano del passato, ma il giallo, il thriller alla Dario Argento, Sergio Martino e Mario Bava, girato in inglese per ottenere distribuzione all’estero. La trama. Claudia è una donna in carriera con un disinibito hobby notturno che pratica al Tulpa, locale di scambisti, dove si fa di tutto: sesso di gruppo, amori lesbici, rapporti sadomaso, un locale dove tutto può accadere, gestito da una figura misteriosa (Nout Arquint, il Caronte di Shadow).

Federico Zampaglione e Claudia Gerini

Claudia evade dal suo quotidiano di manager e frequenta il locale per dare sfogo alla sua libido repressa ma non sa c osa può succedere tra quelle mura. Un misterioso assassino vestito di nero e con i guanti di pelle nera, come nella miglior tradizione del thriller italiano, uccide uno dopo l’altro i frequentatori del Tulpa. Nessun ospite del locale conosce il partner e gli altri compagni di vizio, ma Claudia indaga  sulle loro identità per capire che cosa sta accadendo. Dieci piccoli indiani versione corretta al macabro, in fondo, perché i delitti sono davvero terribili e ben riprodotti. Citiamo la ragazza legata a una giostra e sfregiata con il filo spinato. Vero e proprio giallo che si risolve solo alla fine, capace di inchiodare lo spettatore alla sedia per sapere chi sia l’assassino e quale molla lo spinga a uccidere in modo così efferato.
Manlio Gomarasca su Nocturno (numero 120 - agosto 2012) afferma: “Zampaglione si dimostra pienamente a suo agio nel manovrare gli stilemi del genere e riesce nella difficile ricerca di equilibrio tra reale e surreale. Da profondo conoscitore del giallo all’italiana, dosa con sapienza e mestiere sangue, sesso ed erotismo. Il suo modello è Argento, ma alcune morti hanno il sapore sadico e assurdo del miglior Fulci (la mano di Sacchetti si sente)”. Zampaglione si conferma una promessa del nostro cinema di genere, non solo imitatore del passato, ma anche interprete moderno e pieno di ritmo di nuove storie macabre. Il film verrà distribuito in due versioni, una vietata ai minori di anni 14 e l'altra ai minori di anni 18.


Dardano Sacchetti, da noi avvicinato, ci ha detto: "Io mi sono limitato a vendere un soggetto che poi Zampaglione ha sceneggiato insieme a Gelmini, lo sceneggiatore dei suoi film. La sceneggiatura ha una impostazione leggermente diversa dal soggetto originale avendo sviluppato più il lato giallo (direi quasi classico) che il lato esoterico. Le scene di paura sono molto efficaci e ben girate. Gli attori sono bravi, l'ambientazione romana è molto suggestiva. Il film viene presentato a Londra il 26 agosto nell'ambito di un festival, poi mi ha detto Zampaglione andrà a novembre a Courmayer credo in concorso, quindi dovrebbe uscire sugli schermi. Federico mi aveva già cercato un paio di anni fa per i diritti di un remake, che poi non si poteva fare in quanto i diritti sono pasticciati, ci siamo trovati bene insieme, quindi lui mi ha chiesto un soggetto originale, Tulpa appunto".

Gordiano Lupi

giovedì 16 agosto 2012

Bianchi cavalli d’agosto (1975)

di Raimondo Del Balzo


Regia: Raimondo Del Balzo. Soggetto e Sceneggiatura: Raimondo Del Balzo. Produzione: Rusconi Film. Interpreti: Jean Seberg, Frederick Stafford, Renato Cestié, Alberto Terracina, Antonino Faa Di Bruno, Ciccio Ingrassia, Alberto Farnese, Carlo Gaddi, Filippo Fantini, Vanna Brosio, Paola Rosi, Paolo Paolini, Lorenzo Piani, Vittorio Fanfoni. Montaggio: Angelo Curi. Fotografia: Roberto D’Ettorre Piazzoli. Organizzazione Generale: Rolando Pieri. Musiche: Franco Micalizzi. Ispettore di Produzione: Nicola Venditti. Consulente Artistico: Mario Longardi. Adattamneto Dialoghi: Alberto Liberati. Scenografia: Claudio Cinini. Costumi: Franco Carretti. Operatore alla Macchina: Franco Bruni. Aiuto Regista: Vito Bruschini. Interni: Centro Vacanze di Pugnochiuso (FG) - De Paolis/Incir. Girato per gli Esterni a Pugnochiuso.

Renato Cestié e Ciccio Ingrassia

Raimondo Del Balzo (1939 - 1995) è un giornalista che negli anni Sessanta si dedica al cinema come sceneggiatore, ma riscuote un grande successo come regista riportando in voga il genere melodrammatico. Può essere definito il padre del lacrima movie, genere che va di gran moda per un paio di stagioni e vede protagonisti bambini infelici che spesso muoiono per gravi malattie o tragici incidenti. L’ultima neve di primavera (1973) è il suo primo film di successo, seguito da Bianchi cavalli d’agosto (1975), Giorno segreto (1978 - TV), Midnight blue (1979), Un tenero tramonto (1984) e Le prime foglie d’autunno (1988). Il filone praticato da Raimondo Del Balzo vede come precedente L’albero di Natale (1969) di Terence Young, ma il regista italiano si specializza in pellicole strappalacrime interpretate dal bambino prodigio Renato Cestié. Del Balzo muore per un tumore incurabile all’età di 56 anni.

Jean Seberg e Renato Cestié

Bianchi cavalli d’agosto vede protagonista una famiglia americana di Richmond, Virginia, che trascorre una vacanza italiana a Pugnochiuso, in provincia di Foggia, tra le splendide scogliere della costa pugliese, le antichità di Pompei e gli scavi archeologici. Marito e moglie sono in crisi, trascurano il bambino, il padre soffre di vecchi complessi perché non ha avuto affetto dai genitori, non riesce a costruire un dialogo con il figlio e si dedica soltanto agli scavi archeologici. La madre cade nella rete di Aldo, un giornalista - fotografo ospite dell’albergo, e cede alla sua corte, tradendo ancora una volta il marito. Il bambino si sente solo, ma lega con l’amico della madre, ci parla, inventa storie di pirati e fantastica sulla sua vita, infine conosce un ragazzino della sua stessa età. Ciccio Ingrassia è un tenero pescatore che non parla mai, lavora alla sua barca e con le sue reti, ma non pronuncia una sola battuta, si limita ad ascoltare le fantasie del bambino e regala al pubblico un’espressione intensa. “Ma tu non parli mai?”, chiede il bambino. Il pescatore non risponde e ancora una volta si limita ad ascoltare. Tutti i personaggi sono ben descritti psicologicamente da Del Balzo, con un lavoro di scavo psicologico degno di un romanzo: la moglie insoddisfatta che tradisce il marito, il giornalista che avrebbe voluto fare lo scrittore ma non riesce a emozionare con le parole, il padre che non sa trasmettere le sue passioni al figlio e non comunica, il bambino che si sente solo e vive di fantasie. Tecnicamente il film non sarebbe un lacrima movie, ma una pellicola romantica, un melodramma, perché abbiamo il lieto fine, insolito in certe pellicole. Il bambino cade da una scogliera e finisce sulle pietre aguzze della costa, ma i medici riescono a salvarlo ricorrendo a due operazioni.

L'ultima neve di primavera, primo successo di Del Balzo 

Le cose migliori della pellicola sono un’intensa fotografia flou, la musica romantica che pervade ogni sequenza e l’ambientazione pugliese ricca di colore locale. Del Balzo descrive con sapienti pennellate i volti degli uomini di mare, i contadini che frequentano le osterie, ma anche le bianche scogliere e le pareti rocciose a picco sul mare. La sequenza che rimane impressa è il sogno ricorrente del bambino, quasi un leitmotiv: “Verrà a prendermi un cavaliere arabo al galoppo di un cavallo bianco”. Il regista è abile nel presentare un gruppo di cavalieri vestiti di bianco che cavalcano al rallenti sulla spiaggia renosa, costruendo un sapiente mix di musica e immagini. L’andamento della storia è lento, i pensieri fantastici del bambino sono poetici, le incomprensioni familiari conferiscono un tono drammatico alla pellicola. Il finale è la parte più debole, perché l’operazione cui viene sottoposto il bambino poteva essere realizzata con maggiore realismo, inoltre la tensione drammatica non è al massimo. Inatteso il lieto fine con il bambino che si salva dal grave infortunio e i coniugi che riprovano a stare insieme.  

Il disco di Franco Micalizzi, un successo

Il felliniano Antonino Di Faa Bruno è il direttore dell’albergo, mentre un buon ruolo se lo ritaglia il cane Clipper, che salva il bambino da un incidente e chiama in tempo l’amico della madre. Alberto Terracina ha sempre la solita espressione attonita, da fotoromanzo, ma anche Frederick Stafford non è da meno. Bravo Renato Cestié, specialista di questi ruoli. Non male Jean Seberg. Ciccio Ingrassia recita con la sola espressione del volto.

I due bambini

La critica non considera molto il lacrima movie. Paolo Mereghetti omette persino di citare Bianchi cavalli d’agosto, mentre Morando Morandini concede una stella e mezzo, corretta  a due per il successo di pubblico, ma non commenta. Tre stelle per Pino Farinotti, ma pure qui non leggiamo giudizi critici. Marco Giusti, uno dei pochi ad affrontare senza pregiudizi il lacrima movie, apprezza la recitazione di Jean Soberg e di Ciccio Ingrassia. Per lui la pellicola “non è male”. Condividiamo.


Gordiano Lupi

giovedì 9 agosto 2012

Andy García e la libertà di Cuba

Celebrating Life in Union, il suo ultimo lavoro

Andy García e Huber Matos

Celebrating Life in Union, un documentario con protagonista Andy García racconta la storia di cinque cubani che si unirono alla Rivoluzione Cubana ma finirono nelle prigioni castriste e oggi vivono in uno steso paese degli Stati Uniti. Il 14 agosto lo potremo vedere al Festival del Cinema Internazionale di New York. Mai in Italia, credo.
Andy García non è nuovo a girare fiction e documentari sulla storia del suo paese che ha lasciato in età giovanile, nella speranza che posa servire a cambiare la situazione politica. Ricordiamo gli struggenti The Arturo Sandoval Story (2001) di Joseph Sargent, da lui interpretato, che racconta la vita del celebre musicista cubano e la storia della sua fuga, e The Lost City (2005), scritto da Guillermo Cabrera Infante, diretto e interpretato da García, toccante storia degli errori rivoluzionari e della divisione tra famiglie cubane.


Andy García questa volta è solo la voce narrante, perché il regista - produttore è la venezuelana Gladys Bensimon.
“Ho contattato l’attore cubano, sia per la versione inglese che per quella spagnola, perché la sua storia personale è molto vicina ai drammi umani che racconto, anche la sua famiglia ha dovuto abbandonare Cuba”, dice la regista. 
Il film narra la storia di cinque cubani finiti in carcere dopo aver lottato per la Rivoluzione, “traditi dal loro leader”, Fidel Castro, ma ancora amici, che adesso vivono a Union City (New Jersey).
“Le loro storie mi hanno commosso, soprattutto mi ha fatto star male vederli piangere ricordando i loro amici. Aldo Chaviano, per esempio, è il solo sopravvissuto di un gruppo di 19 persone e ha visto fucilare i suoi compagni”, riferisce Bensimo.
I protagonisti del documentario sono: Chaviano, condannato a 26 anni di galera, José Gutiérrez Solana e Aurelio Candelaria (rispettivamente 10 e 26 anni di carcere), così come Ángel Alfonso e Aniceto Cuesta (20 e 13 anni).  Il più giovane di loro aveva 15 anni e il più vecchio solo 19 quando si unirono al movimento che nel 1959, guidato da un giovane Fidel Castro, sconfisse Fulgencio Batista.


“Erano giovani lavoratori, studenti universitari, maestri, agricoltori, che lottarono contro Batista. Credevano che Castro volesse restaurare la democrazia, come aveva promesso, e proclamare le elezioni, ma non accadde. Furono traditi da Castro e finirono per ribellarsi guidando una sorta di rivolta sulle Montagne dell’Escambray. Per questo furono arrestati e condannati come traditori, mentre chi era venuto meno alle idee base della rivoluzione era proprio Castro”, afferma la regista.
La cineasta ha intervistato anche lo scrittore Huber Matos, 93 anni, ex comandante della Rivoluzione che rinunciò a seguire le orme di Fidel dopo la promessa incompiuta di convocare elezioni. Matos venne accusato di tradimento e di conseguenza un gruppo di giovani prese le armi contro Castro. Nel documentario, uno degli ex prigionieri politici, Ángel Alfonso, dice che conoscere il caso di Huber Matos “aprì gli occhi a tutta la gioventù cubana”. Chaviano, da parte sua, dice  che Fidel Castro li “ingannò” e che di fronte al suo “tradimento”, decisero di impugnare le armi un’altra volta.
Celebrating Life in Union racconta le storie degli ex prigionieri e delle loro famiglie, che pregarono perché non venissero giustiziati. I protagonisti assisteranno alla presentazione del documentario a New York. “Sarà un omaggio per loro”, ha detto la regista.  

Il trailer (in spagnolo e inglese):

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=x0F63MMARbs#t=27s

Gordiano Lupi

mercoledì 8 agosto 2012

La città gioca d’azzardo (1975)

di Sergio Martino


Regia: Sergio Martino. Soggetto: Ernesto Gastaldi. Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Sergio Martino. Fotografia: Giancarlo Ferrando. Musiche: Luciano Michelini. Scenografie: Giorgio Bertolini. Produzione: Luciano Martino per Dania Film. Distribuzione. Medusa. Interpreti: Luc Merenda, Dayle Haddon, Corrado Pani, Enrico Maria Salerno, Franco Javarone, Lino Troisi, Bruno Arié, Vittorio Fanfoni, Carlo Alighiero, Tom Felleghi, Salvatore Puntillo, Piero Palermini, Bruno Ukmar, Carlo Gaddi, Loris Pereira Lopez, Giusepe Terranova. 



Iris è un canale del digitale terrestre che spesso riserba gustose sorprese, come La città gioca d’azzardo, scritto dal grande Ernesto Gastaldi, sulla scia di Scerbanenko, ambientato tra una Milano notturna e una Nizza solare, girato con maestria da un ispirato Sergio Martino. Non è facile definire la pellicola, perché è riduttivo inquadrarla nel poliziottesco, così come non è soltanto un noir milanese alla Ferdinando di Leo. Gastaldi e Martino scrivono un plot originale sulla corruzione e il gioco d’azzardo, basato su alcuni personaggi negativi (anche se i protagonisti si redimono), come esige un buon film modello polar. Gli autori rimpiangono la criminalità con un codice d’onore e condannano la nuova delinquenza violenta, ma confezionano anche una bella storia d’amore che passa dalla commedia sentimentale al lacrima movie senza soluzione di continuità. Un film che è pura commistione di generi, lezione imperdibile per aspiranti registi su come si faceva il cinema negli anni Settanta. Interpreti eccellenti: una stupenda Dayle Haddon e tre attori superlativi come Luc Merenda, Corrado Pani ed Enrico Maria Salerno. Luc Merenda è un baro professionista che per amore si mette contro il figlio del boss, rischia la vita, si vendica ma resta ferito per sempre negli affetti personali. Corrado Pani è un inetto e violento criminale, parricida, inconcludente, inutilmente carogna. Enrico Maria Salerno è il criminale del bel tempo andato, legato a un codice cavalleresco, che odia il figlio incapace, ma viene eliminato dal suo rancore. La modella canadese Dayle Haddon - in uno dei suoi ultimi film - è la bella ragazza perduta che scopre l’amore in Luc Merenda, un uomo che dia un senso alla sua vita. Vorrebbe ricominciare, scommettere sul futuro, avere un figlio, costruire un’esistenza normale. Struggente il finale, che non racconto, per chi volesse vedere senza perdere il gusto della sorpresa una perla del cinema popolare italiano. Fotografia stupenda, soprattutto una Nizza da cartolina e il lungomare della Costa Azzurra, ma anche il Lago Maggiore, sfondo della commedia sentimentale. Montaggio rapido, se storicizziamo la pellicola. Sceneggiatura priva di pecche. Bruciamo il Mereghetti, anche se non si bruciano i libri, ma in questo caso il suo giudizio caustico e incompetente grida vendetta: “Spaccato di malavita quasi picaresco, ma del tutto ovvio e prevedibile: e con una svolta melodrammatica poco convincente”. Ve lo meritate il cinema italiano di oggi, signori critici con la puzza sotto il naso, ve li meritate Garrone e Sorrentino!


Gordiano Lupi

martedì 7 agosto 2012

L’ingorgo (1979)

di Luigi Comencini

Regia: Luigi Comencini. Soggetto: Luigi Comencini. Sceneggiatura: Luigi Comencini, Ruggero Maccari, Bernardino Zapponi. Sceneggiatori per le versioni estere: Roxanne Boutang (Francia), Peter Berling (Germania), José Luis Martinez Molla (Spagna). Montaggio: Nino Baragli. Fotografia: Ennio Guarnieri. Scenografo: Mario Chiari. Architetto: Antonio Cortes. Costumi: Paola Comencini. Collaboratore alla Regia: Massimo Patrizi. Aiuto Regista: Riccardo Tognazzi. Musiche: Fiorenzo Carpi. Direttore Musiche. Bruno Nicolai. Collaboratore del Produttore: Simon Mizrahi. Direttore di Produzione: Marcello Crescenzi. Produttore: Silvio e Anna Maria Clementelli. Produzione: Clesi Cinematografica (Roma). Coproduzione: Greenwich Film (Parigi), José Frade Prod. Cinemat. (Madrid), Albatros Produktion (Munchen). Regista Seconda Unità: Jean Luis Bunuel. Costruzioni Esterni ed Esterni: Cinecittà. Canzoni: Woman of Night (Alessandro Incrocci) è cantata da “Martina”, Il treno dei bambini (Gianni Rodari - Fiorenzo Carpi) è cantata da Anna Melato, La canzone dell’ingorgo (Massimo Patrizi - Fiorenzo Carpi) è cantata da Giovannella Grifeo, Momento 25 bis Canzone del male (Mario Salis). Interpreti: Alberto Sordi, Annie Girardot, Fernando Rey, Patrick Dewaere, Angela Molina, Harry Baer, Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli, Gianni Cavina, Ugo Tognazzi, Gerard Depardieu, Miou Miou, Orazio Orlando, Giovannella Grifeo, Lino Murolo, Ciccio Ingrassia, Francisco Algora, Ferdinando Murolo, José Prada, José Vivo, Francisco De Zurbano, Ernst Hannewald, Nando Orfei, Eleonora Comencini, José Sacristan, Ester Carloni, Marcello Fusco, Mario Dardanelli, Roberto Bonacini, Antonietta Esposito, Mariano Vitale, Susy Lover, Aldo Riva, Giuseppe Cafarelli, Mickael Friedel, Solvi Stubing, Mariama Camara, Daniela Igliozzi.  


Luigi Comencini costruisce una fiaba nera di taglio realistico - fantastico raccontando una serie di miserie umane durante un ingorgo stradale. Non conta tanto la trama quanto le situazioni che si sviluppano e la galleria di personaggi negativi messi in primo piano da un’inclemente macchina da presa. Alberto Sordi è un produttore discografico che torna dall’Africa ed è atteso da numerosi impegni; Orazio Orlando è il suo braccio destro, lo compiace in tutto e per tutto, esegue gli ordini più paradossali, caratterizzando benissimo il ruolo del succube. Sordi si spaccia per socialista ma è un arricchito arrogante che disprezza i poveri e pensa di poter comprare tutto con il denaro, persino un corpo di giovane donna. Finirà per invaghirsi di una ragazza madre portandola al successo nel dorato mondo discografico.


Una famiglia di operai parte per le ferie e all’interno dell’utilitaria si sviluppa un mondo, tra litigi padre - figlia per un bambino senza padre, incomprensioni tra moglie e marito, ragazzini che gridano e la nonna che dorme. Ciccio Ingrassia è un ferito grave in barella, investito da un autobus, che sta morendo a bordo di un’autoambulanza, ma pensa a monetizzare l’infortunio, ai soldi che l’assicurazione potrebbe pagare. Il suo è un bel personaggio di uomo solo che affida il gatto Giuseppe, unico affetto, alle cure di un infermiere poco interessato alla sorte del logorroico infortunato.


Una coppia (Fernando Rey e Annie Giradot) festeggia le nozze d’argento, sogna di arrivare alle nozze d’oro, ma un fatto banale come la perdita delle chiavi scatena il rancore represso e dà il via a una serie di offese e recriminazioni reciproche. Comencini critica in modo molto duro l’istituzione del matrimonio. Alcune modelle si esibiscono in un servizio fotografico sul tetto di un’auto, passano donne da guardare e da corteggiare, si incontrano vari tipi umani, arroganti, miti, violenti, riflessivi. L’ingorgo rende tutti uguali, ricchi, poveri, famosi, anonimi, proletari, colti, volgari, educati, coppie felici, famiglie tristi, belle ragazze, banditi. Si fanno incontri, si litiga, si corteggiano ragazze, si consumano tradimenti, il povero regala l’acqua al ricco che vorrebbe pagare per non avere obblighi.


Marcello Mastroianni è un attore famoso circondato da fan che chiedono l’autografo, lo salva Gianni Cavina che lo porta a casa sua, fa in modo che vada a letto con la bella moglie incinta (Stefania Sandrelli) per avere una raccomandazione per fare l’autista a Cinecittà. Comencini riprende una violenza carnale ai danni di Angela Molina (uno dei pochi personaggi positivi) da parte di tre teppisti che restano impuniti per la connivenza di alcuni vigliacchi, guardoni compiaciuti ma non intenzionati a denunciare. Il compagno della ragazza è un altro personaggio positivo perché avrebbe l’opportunità di vendicarsi ma pensa ai bambini e ai tanti innocenti che morirebbero se facesse esplodere l’auto dei violentatori. Abbiamo un dandy con il vizio del fumo che pensa solo a  scopare, mentre Tognazzi è il traditore intellettuale che si porta a letto la moglie (Miou Miou) dell’autista sempliciotto (Depardieu).


Gli istinti bestiali degli uomini vengono fuori di fronte alle difficoltà, vediamo la caccia al cibo e chi fa incetta di scatolame per guadagnarci sopra, sfruttando il momento di necessità. Comencini mette in mostra i bisogni primari degli uomini che accomunano ricchi e poveri, ma soprattutto esibisce un palcoscenico di miseria morale e di turpi egoismi. Il calcio riunisce tutti quando comincia la partita, vince l’Italia, escono fuori le bandiere e per un attimo ci si sente stupidamente italiani. I bambini sono una costante nei film di Comencini, rappresentano la speranza, il motivo per vivere un futuro che potrebbe essere diverso.


L’ingorgo è un film corale, girato in un’unità di tempo e di luogo, molto teatrale, costruito con gigantesche scenografie surreali dove si sviluppano storie a metà strada tra il realistico e il surreale. I personaggi a volte sono macchiette un po’ troppo stereotipate e si notano gli intenti didascalici, ma il film resta una bella galleria di tipi umani, un notevole spaccato sulla società italiana di fine anni Settanta, un coacervo di piccoli egoismi e contraddizioni. Comencini non manca di criticare la censura e persino la religione con la figura di un prete alternativo che nell’omelia funebre a Ciccio snocciola i peggiori difetti degli uomini, fotografati nel corso del film. L’omelia recita il credo di Comencini, anticonsumista ed ecologista, ma la speranza resta nei bambini e in una famiglia normale che si trova nell’ingorgo con il figlioletto malato, addormentato da anni, in cerca di qualcuno o qualcosa (un mago, un miracolo…) che possa riportarlo al loro amore. L’ingorgo sembra non finire, come la vita, le auto non ripartono, tutto prosegue come è cominciato. Ormai l’abbiamo capito che l’ingorgo è una metafora della vita.
Alcuni testi (Farinotti) parlano di un sottotitolo: L’ingorgo - Una storia impossibile, che nella nostra versione non figura. Tre stelle per il critico. “Un ingorgo di traffico che durerà ben trentasei ore, mostra le varie reazioni degli automobilisti bloccati. Ciascun prigioniero mostrerà il lato peggiore di sé”. Pure Morando Morandini cita il sottotitolo e concede tre stelle e mezzo, aggiungendo che per il pubblico ne merita tre e che è stato ridistribuito come Black out sull’autostrada. Grazie a lui apprendiamo che la storia è ispirata a un racconto di Julio Cortázar. Condivisibile il giudizio: “Relegati sullo sfondo, e tra le pieghe, i risvolti di fantasociologia e le ipotesi di catastrofe ecologica, il racconto si frantuma in un’aneddotica di taglio realistico nel quadro della commedia di costume, ma c’è una nascosta speranza di progressione narrativa e di impaginazione per cui l’addizione finale è superiore alla somma dei suoi addendi”. Il film si sforza di convalidare il motto di Borges: “Gli toccarono, come a tutti gli uomini, tempi brutti per vivere”. Paolo Mereghetti è meno entusiasta: “Comencini echeggia Week-end di Godard, Roma di Fellini e il racconto L’autostrada del sud di Julio Cortázar, intrecciando una folla di personaggi per dipingere i vizi italiani. Ricchi e poveri, vecchi e giovani, nessuno viene risparmiato. Il tono è grottesco, violento, sgradevole e incattivito: una vera pietra tombale della commedia. Ma il film rimane bloccato come la situazione che descrive: il mosaico di episodi e attori non sempre funziona, ed è generica la morale enunciata alla fine dal prete (Salvaci dalla plastica, dalla ragion di Stato, dalle divise, dal mito dell’efficienza). Un esempio, comunque, delle ambizioni alte (anche dal punto di vista produttivo) che il cinema italiano si poteva permettere prima del crollo negli anni Ottanta”. Non condividiamo una parola di questa impostazione critica e preferiamo unirci all’entusiasmo di Farinotti e Morandini. Il film dura circa 112’, le musiche sono di Fiorenzo Carpi, mentre la scenografia è costruita con grande dispendio di energie.

Gordiano Lupi

Per vedere alcune sequenze: http://www.youtube.com/watch?v=cikppiJKWJM

lunedì 6 agosto 2012

Cari fottutissimi amici (1994)

di Mario Monicelli


Regia: Mario Monicelli. Soggetto: Rodolfo Angelico. Sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli. Fotografia: Tonino Nardi. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Musiche: Renzo Arbore (consulente per i pezzi d’epoca), Alessandro Mannozzi. Scenografia: Franco Velchi. Costumi: Lina Nerli Taviani. Produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori. Distribuzione: Penta Film. Interpreti: Paolo Villaggio, Paolo Hendel, Massimo Ceccherini, Beatrice Macola, Novello Novelli, Antonella Ponziani, Eva Grimaldi, Elijan Raynard Childs, Vittorio Benedetti, Stefano Davanzati, Giuseppe Oppedisano, Sergio Pierattini, Marco Graziani, Alessandro Paci. 

Eva Grimaldi

Cari fottutissimi amici è commedia all’italiana di buon livello, anche se parte della critica stronca senza appello uno degli ultimi lavori di Mario Monicelli. Siamo nel 1944, in una Toscana appena liberata, dove l’ex pugile Dieci (Villaggio) compone una sorta di Armata Brancaleone pugilistica che si sposta da una città all’altra per combattere sul ring. Il prezzo pagato per incontri, spesso combinati, in gran parte farseschi, sono generi alimentari, vestiti e prodotti di prima necessità. La fortuna dello sgangherato gruppetto consiste nell’incontrare gli americani che in cambio di una serata pugilistica riempiono il camion dei disperati di ogni ben di Dio. Villaggio è molto bravo come capo gruppo che raduna attorno a sé una serie di persone disposte a tutto pur di sopravvivere, recita una parte da vero attore e non da caratterista.

Monicelli al lavoro

La frase simbolo del film viene affidata addirittura a Cecchierini che nel finale ricorda il passato, dice che erano tempi diversi, non solo perché aveva vent’anni, infine aggiunge: “Forse è vero che sopravvivere è meglio di vivere”. Ottima l’ambientazione nella Toscana del 1944 con gli americani che stanno liberando la penisola, i partigiani che danno la caccia ai fascisti e la gente che cerca di sbarcare il lunario. Grande ricostruzione d’epoca tra casolari abbandonati, linee ferroviarie dissestate, camionette distrutte che arrancano a fatica per le colline senesi bruciate dal sole. Grande Ruggero Mastroianni al montaggio e ottima la fotografia di Tonino Nardi. Indispensabile la consulenza musicale di Renzo Arbore che compone una colonna sonora a base di gustosi brani d’epoca. Tutto è recitato in un convincente vernacolo toscano, a parte Villaggio che parla genovese, ma il personaggio glielo consente. Molto bravi Ceccherini, Novelli ed Hendel, perfettamente a loro agio con i personaggi interpretati. Non abbiamo più visto un Ceccherini così diligente e disciplinato. Un vero attore comico. Belle presenze femminili come Eva Grimaldi, Beatrice Macola e Antonella Ponziani.


Da citare alcuni frangenti indimenticabili: la pisciata in compagnia (persino il cane e una ragazza vestita da uomo che si nasconde dai partigiani), il commento sarcastico sulla Coca Cola che sa di petrolio e di ascella (“Lo vedi è una purga, c’è scritto Caca Cola!”), l’interprete siciliano che conosce l’inglese, la scoperta della minestra in polvere che portano gli americani, lo scherzo dei partigiani che mettono in scena una finta fucilazione. Al campo americano tutto finisce in rissa, ma il regista fa in tempo a ricostruire la presenza di cibo in scatola, gomma da masticare, hamburger, hot dog, latte in polvere, cioccolata e altre prelibatezze ignote agli italiani.

Paolo Villaggio

Un film on the road, stile Amici miei e L’armata Brancaleone, che parla di amicizia, guerra, amore, tradimenti e voglia di sopravvivere, con delicatezza e poesia. Ottima la sceneggiatura, scritta da professionisti come Suso Cecchi D’Amico, Benvenuti e De Bernardi, priva di tempi morti e ricca di suspense, senza pecche la regia. Il film per Monicelli si dovrebbe intitolare Bazza di vetro o Dieci, ma la produzione opta per Cari fottutissimi amici. Paolo Mereghetti distrugge il lavoro di Moncelli concedendo una sola stella: “Tutto già visto. Commedia stanca, senza idee nuove, indulgente e nostalgica. Un road movie picaresco che è l’ennesimo ritratto dell’Italia strapaesana, retta dall’incrollabile arte di arrangiarsi e osservata con l’occhio falso-cinico-grottesco dell’ex commedia all’italiana riciclata”. Per fortuna Morando Morandini concede due stelle e mezzo: “Film corale picaresco di svelta protervia e apparente futilità in una miscela di disincanto e buffoneria, pathos e ironia, crudeltà e tenerezze di contrabbando”. Nella mia analisi spero di essere stato più chiaro e diretto di Morandini ma la sostanza è che al colto critico il film è piaciuto. Pino Farinotti arriva a tre stelle: “Monicelli firma un film molto particolare e originale, sfortunato al botteghino. Bravo Paolo Villaggio”. Non dice molto, tanti aggettivi a sproposito, ma promuove il lavoro di Monicelli. Da rivalutare.

Per vedere alcune sequenze:



Gordiano Lupi

giovedì 2 agosto 2012

I tre nemici (1962)

di Giorgio Simonelli  

Regia: Giorgio Simonelli. Soggetto e Sceneggiatura: Castellano e Pipolo. Montaggio: Dolores Tamburini. Fotografia: Aldo Giordani. Operatore alla Macchina. Sergio Bergamini. Fonici: Pietro Ortolani, Raffaele Del Monte. Fotografo: Osvaldo Civirani. Scenografo: Antonio Visone. Costumi: Rosalba Menichelli. Trucco: Dulio Giustini. Musiche: Lallo Gori. Aiuto Regista: Nick Nostro. Ispettori di Produzione: Marcello Papaleo, Aldo Passalacqua. Segretaria di Edizione: Franca Trombetti. Produzione: Gino Mordini. Interpreti: Gino Bramieri, Cristina Gaioni, Helen Chanel, Martin Benson, Margaret Lee, Janine Hendy, Peter Dane, Elisabetta Velinsky, Fanfulla, Luigi Visconti, Tullio Altamura, Joe Mauro, Mara Berni, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia,  Raimondo Vianello, Nino Terzo.

I tre nemici è un film costruito sulla comicità grottesca di Gino Bramieri ancora grasso e imbranato, che recita accanto a un compassato Raimondo Vianello, efficace spalla comica. Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono ancora due comici alle prime armi che - in attesa di affinare i ruoli - si limitano a rapide incursioni da guastatori in una trama da spionaggio farsesco.


Uno scienziato scopre la formula di una bomba micidiale che i servizi segreti ricercano senza sosta e con grande dispendio di energie. La formula è stata tatuata sulla natiche di Leo Bottini (Bramieri), impiegato di un’agenzia di viaggi che ama il mare e i tatuaggi, oltre ad avere una grande passione per la bella Titty (Chanel). Da questo assunto paradossale nascono una serie di equivoci che la sceneggiatura di Castellano e Pipolo cerca di rendere divertenti ed efficaci. Tutti vogliono nudo Leo “il furbo”, persino alcune belle spie come Margaret Lee e Cristina Gaioni, convinte dagli agenti segreti a usare il loro fascino per recuperare la formula. Titty finge di sposare Leo per avere i debiti condonati, abbandona il marito tra le braccia degli aguzzini, ma poi si pente e si innamora davvero. Raimondo Vianello è Gerardo, austero padrone di un’agenzia di viaggi che non riesce a concludere con l’amante per colpa dell’inetto dipendente. Bramieri lo chiama papà, cerca affetto e protezione, recita alla perfezione il ruolo del totale incapace. Vianello e Bramieri sembrano replicare molte gag di Gianni e Pinotto, anche fisicamente sono molto simili ad Abbott e Costello, ma il loro umorismo non raggiunge vette eccelse. Non sono una coppia comica indovinata. Franco e Ciccio, nei panni di Frantuzzo e Rocco, due ladruncoli siciliani trapiantati a Roma, sono al loro nono film e non presentano una fisionomia precisa. La cura Lucio Fulci deve ancora far sentire i suoi effetti. Recitano in un siciliano tipico dei primi film capovolgendo la costruzione dei periodi, irrompono nei momenti topici della pellicola, rubano la formula e tolgono dai guai Bramieri. I tre nemici è una delle prime parodie del genere spionistico, gradevole ma non perfetta come tempi comici e qualità delle battute, soprattutto risente di un utilizzo limitato della coppia comica siciliana. Castellano e Pipolo sono lineari e prevedibili come sceneggiatori, non si lasciano mai andare a trovate insolite. Alla fine tutti vogliono uccidere Bramieri per eliminare il pericolo che si diffonda la formula. La formula finisce sul volto del padrone, perché dopo un incidente gli viene fatta una plastica facciale con la pelle prelevata dalle natiche del dipendente. Il film procede verso un finale lieto per il grottesco Bramieri e infernale per Vianello, ridotto a una mummia in fuga dall’ospedale.

Raimondo Vianello e Gino Bramieri
I tre nemici (cosa significa il titolo?) è una commedia degli equivoci che spesso vira in pochade, zeppa di doppi sensi e di personaggi grotteschi, tra scambi di persona, qui pro quo inevitabili, donne nascoste negli armadi e vagoni letto che diventano trappole mortali. Le situazioni sono ben concatenate le une alle altre, pur inserite in un soggetto semplice e lineare. Nel cast minore ricordiamo Nino Terzo nei panni di un cliente che tartaglia mentre Gino Bramieri lo vuol mandare a Parigi per vedere gli spogliarelli. Margaret Lee  si vede poco, ma nel breve spazio della sua apparizione è una spia languida e sensuale. Gino Bramieri è caricaturale ed eccessivo, ma è il suo tipo di comicità prima della cura dimagrante, da bambinone un po’ scemo. Raimondo Vianello, invece, sfoggia tutto il suo aplomb da comico inglese. Tra le battute migliori ricordiamo l’insegna appesa sulla porta della baracca dove vivono Franco e Ciccio: “Rocco e suo fratello”, chiara allusione ironica al film di Visconti. I due siciliani sono divertenti nelle vesti di ladri inconsapevoli che mandano all’aria i piani delle spie, costruiscono la bomba convinti che sia un dolce, fanno esplodere la baracca dove vivono e infine rischiano la vita come tassisti. La musica di Lallo Gori ricorda le comiche del muto. Fotografo di scena è il futuro regista Osvaldo Civirani. Nick Nostro è aiuto.

Il tatuaggio della formula segreta

Il film non è apprezzato dalla critica. Paolo Mereghetti concede una sola stella: “Farsa spionistica frusta e ripetitiva”. Morando Morandini conferma la valutazione minima senza motivare, ma ricorda che per il pubblico vale due stelle. Pino Farinotti conferma le due stelle, ma senza esprimere giudizi.  Il film è reperibile in edicola nella collana Hobby & Work, ben curata per i testi da Simone Buttazzi.

Per vedere il film on line: http://www.youtube.com/watch?v=IV0lsTjhRPk

Gordiano Lupi