venerdì 26 settembre 2014

Scandalo (1976)

di Salvatore Samperi


Regia: Salvatore Samperi. Interpreti: Lisa Gastoni (Eliane Michoud), Franco Nero (Armand), Raymond Pellegrin (professor Michoud), Andrea Ferreol (Juliette), Claudia Marsani (Justine), Antonio Altoviti, Carla Calò, Franco Patano. Soggetto: Salvatore Samperi. Sceneggiatura. Ottavio Jemma, Salvatore Samperi. Montaggio: Sergio Montanari. Fotografia: Vittorio Storaro (Technicolor). Musiche. Riz Ortolani (Composte e Dirette). Edizioni Musicali: Ameuropa International. Aiuto Regista. Piernico Solinas. Operatore alla Macchina: Enrico Umetelli. Fotografo di Scena: Angelo Samperi. Trucco: Franco Schioppa. Direttore di Produzione: Marcello Crescenzi. Costumi: Gitt Magrini. Scenografia. Ezio Altieri. Produttore: Silvio Clementelli. Produzione: Clesi Cinematografica. Ricostruzione Esterni ed Interni: Teatri di Posa De Paolis (Roma). Capo Costruzioni: Pietro Galli.


Salvatore Samperi scrive e dirige uno dei suoi film più morbosi e intriganti, permeato di un erotismo malsano, scandagliando l’animo umano per mettere in luce elementi di sadismo e masochismo presenti nel rapporto uomo - donna.


Scandalo è ambientato nel 1940, in un’immaginaria cittadina francese - ricostruita fellinianamente nei teatri di posa De Paolis - alla vigilia dell’invasione tedesca, dove Armand (Nero), un imboscato che lavora come garzone di farmacia, intesse una relazione pericolosa con Eliane (Gastoni), la padrona del negozio. Armand manda avanti un rapporto fedifrago con Juliette (Ferreol), la cassiera della farmacia, che tradisce il marito, ma non è soddisfatto, vuole levarsi lo sfizio di andare a letto con la padrona, che in un primo tempo lo rifiuta ma subito dopo gli si concede e diventa la sua schiava. Il rapporto tra Armand ed Eliane si trasforma passo dopo passo in una relazione dominante - dominato, dove la donna è un’inerme succube disposta ad accettare qualunque umiliazione. Il marito (Pellegrin) è un intellettuale, un appassionato collezionista, freddo, distante, fondamentalmente vigliacco, perché quando viene a sapere della relazione tra moglie e garzone piange in silenzio ma accetta il fatto e non interferisce.


Alla fine Armand chiede la prova più grande alla sua schiava d’amore: la figlia adolescente Justine, interpretata da Claudia Marsani, fresca debuttante in Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Luchino Visconti.  Irrompe la gelosia isterica nel rapporto con la madre resa folle dal fatto che il suo uomo possa far l’amore con la figlia, ma alla fine sarà proprio lei a spingerla tra le sue braccia, mentre il marito si chiude nello studio e come sempre finge di non sapere. Assistiamo a uno sdoppiamento della personalità: da una parte la madre che non vorrebbe consegnare la figlia all’uomo che ama, dall’altra la succube che non può fare a meno di ubbidire al dominatore. Il finale è emblematico. Armand fa l’amore con Justine (con grande dolcezza) durante i bombardamenti e il coprifuoco, mentre moglie e marito si tengono ipocritamente per mano nel grande letto matrimoniale. I valori borghesi sono stati fatti a pezzi, primo tra tutti il matrimonio, ma quel che conta è salvare le apparenze.


Scandalo è un film erotico d’impostazione melodrammatica, fotografato con tonalità ocra che conferiscono un sapore antico dal bravo Vittorio Storaro, impreziosito dalle musiche suadenti composte e dirette dal grande Riz Ortolani. Tornano vecchi temi cari al regista: il sadomasochismo alla Grazie zia, l’amore tra una donna matura e un giovane, il rapporto con un’adolescente. Scandalo resta un’opera irrisolta, ambientata in una Francia di fantasia, interpretata a dovere da Franco Nero e Lisa Gastoni, intensi protagonisti di un dramma erotico. 


Figure marginali la lieve e sorridente Ferreol, ma soprattutto il fumettistico professore interpretato da Pellegrin e l’acerba adolescente impersonata dalla giovanissima Marsani, una meteora che dopo una copertina su Playboy e pochi lavori nel periodo 1974 - 1976 abbandonerà il cinema. Samperi continua nel lavoro di demolizione dei valori borghesi, girando un nuovo atto di accusa nei confronti della famiglia come istituzione, caratterizzato da uno stile sensualmente morboso. 


Stupenda Lisa Gastoni in numerose sequenze erotiche, immortalata mentre passeggia nuda per strada, umiliata da un amore impossibile e distruttivo. Franco Nero è fantastico nei panni del dominatore, un individuo rozzo, spietato, consapevole del suo fascino, che umilia la donna spingendola ad atti erotici esibizionisti e degradanti, mettendola in ridicolo davanti alla sua amante, incitandola a compiere striptease ed esibizioni sempre più audaci. Samperi è molto bravo a spingere sull’acceleratore dell’erotismo, alcune sequenze sono da maestro del genere: la donna telefona e l’uomo le accarezza il seno, la masturbazione sotto il bancone, la fellatio obbligata, l’ossigeno soffiato sotto la gonna in presenza della figlia, le torture sessuali di varia natura, la passeggiata per strada nuda come se fosse una puttana, i vestiti lacerati con una lama sottile… 


Il matrimonio diventa una gabbia - sembra voler dire Samperi - dalla quale si desidera uscire per assaporare una ventata di libertà, al punto di accettare una schiavitù peggiore, se a proporla è un nuovo e affascinante oggetto del desiderio. Straordinaria l’ultima sequenza senza personaggi, un soggettiva inquietante che dal letto matrimoniale conduce in strada dove infuriano i bombardamenti, passando per la camera dove la figlia sta consumando il rapporto che la renderà donna.

mercoledì 24 settembre 2014

Di mamma non ce n’è una sola (1973)

di Alfredo Giannetti


Regia: Alfredo Giannetti. Soggetto: Ugo Liberatore. Sceneggiatura: Alfredo Giannetti. Fotografia: Alberto Spagnoli. Colore. Technicolor. Montaggio: Renato Cinquini. Musiche: Armando Trovajoli (Edizioni Musicali C.A.M.). Scenografie. Giorgio Gallani. Direttore di Produzione: Mario Cotone. Assistente alla Regia: Mario Garriba. Operatore alla Macchina: Emilio Loffredo. Fotografo di Scena: Giuliana De Rossi. Produttori: Giuseppe Zaccariello e Carmine De Benedittis. Casa di Produzione: Nuova Linea Cinematografica. Interpreti: Lino Capolicchio, Senta Berger, Sonia Petrova, Vittorio Caoprioli, Lionel Stander, Isabelle Marchall, Enrico Tricarico, Luigi Antonio Guerra, Silla Bettini, Vanni Castellani. Teatri di Posa: De Paolis (Roma). Esterni: Firenze.


Di mamma non ce n’è una sola è una commedia erotica grottesca, scritta da Ugo Liberatore - inventore dell’esotico - erotico e girata da Alfredo Giannetti (1924 - 1995), un grande cineasta che - tra alti e bassi - ha dato molto al nostro cinema. Roberto Poppi ci è di aiuto con il suo prezioso manuale per ricordarci che si tratta di un soggettista - sceneggiatore, cresciuto alla corte di De Santis e collaboratore di Germi. Giannetti diventa lo sceneggiatore di fiducia di Germi, scrive melodrammi neorealisti come Il ferroviere e commedie bucoliche come Serafino. Tra i suoi pochi film ricordiamo il debutto con il drammatico Giorno per giorno disperatamente (1961), quattro lavori televisivi interpretati da Anna Magnani, alcune commedie (Bello come un arcangelo, 1974) e una gangster story con Franco Nero (Il bandito dagli occhi azzurri, 1980). Il suo ultimo film per il cinema è del 1983: Legati da tenera amicizia


Di mamma non ce n’è una sola non è il suo miglior lavoro, ma è resta nell’immaginario collettivo, sia per la rarità che l’ha trasformata in oggetto di culto tra i collezionisti, che per un cast importante, insolito in un lavoro senza pretese realizzato da Carmine de Benedittis. L’argomento è delicato: si narrano le vicissitudini di Marcello (Capolicchio), un figlio innamorato della madre (Berger), vittima del complesso di Edipo al punto che non riesce ad avere rapporti con le donne. Marcello instaura un legame morboso con la madre, che intanto se la fa con un giardiniere sporcaccione (Stander), anche se nel finale comprendiamo che si tratta del marito, da tutti ritenuto disperso in Africa. Il rapporto contessa - giardiniere (una vera e propria caccia nel bosco) ricorda la relazione tra la nobile e il guardacaccia ne L’amante di Lady Chatterly, come afferma lo stesso Stander durante un dialogo. Marcello deve scrivere un libro sulla madre, per questo la fotografa seminuda, mentre fa il bagno, rubando scatti in posizioni erotiche.


Il rapporto madre - figlio è scandagliato dal regista (anche sceneggiatore) in tutta la sua complessità, una sorta di amore - odio, una passione che frena la libido del ragazzo, soddisfatto di andare a letto con la mamma in maniera molto castra, come un bambino piccolo. Niente fa pensare all’incesto nel soggetto del film, la sceneggiatura mantiene un registro grottesco e persino surreale, da film comico, che non permette concessioni morbose. Le fidanzate del figlio vengono cacciate via con la complicità della madre, ben felice di restare la sola donna importante nella vita del ragazzo. 


René (Marchall) è l’ultima vittima di una situazione che mostra Lino Capolicchio in un’interpretazione sopra le righe, un figlio che cerca la madre in ogni donna e che  non desidera rapporti erotici. Sta bene nel lettone della madre dove ritrova come da bambino la casta posizione del seggiolino, che lo soddisfa in tutti i sensi, moralmente e sessualmente. Molto bravi anche Lionel Stander (il giardiniere/padre) e Vittorio Caprioli (Goffredo), nei panni di due laidi personaggi interessati a sesso e ricchezza, anche se il primo rivelerà il suo segreto. Quando muore la madre in un incidente il figlio è disperato, non si dà pace, ma finirà per scoprire che di madre non ce n’è una sola tra le braccia di Sandra (Petrova), una nuova fidanzata che ricorda sembianze e atteggiamenti materni. Sandra veste come la madre, indossa i suoi occhiali, la sua parrucca, prende il suo posto nel cuore del figlio, in ogni senso, completando il rapporto con un buon feeling erotico. 


Il film si arricchisce di parti oniriche con il figlio che sogna di ballare un valzer con Sandra e rivede sua madre, ma anche di sequenze che ricordano la pochade, tra scambi di camere, amanti nascosti sotto il letto e nell’armadio. La sceneggiatura prosegue con il giardiniere che elimina Goffredo gettandolo in una botte di vino, mentre lui stesso muore d’infarto davanti a Sandra che gli appare nuda. Marcello e Sandra si baciano, preludio a un intenso rapporto sessuale che sblocca il ragazzo e apre la strada alle nozze. 


Di mamma non ce n’è una sola è un film indefinibile, massacrato dalla critica che definisce sprecato un cast di ottimi attori chiamati a interpretare una storia banale. In parte è vero, ché soggetto e sceneggiatura sono abbastanza limitati, ma il regista realizza un film divertente su un tema delicato senza mai cadere nel volgare. Molti nudi, alcune sequenze erotiche, diversi strip della Berger e della Petrova, prove interessanti di Capolicchio (in un ruolo difficile e insolito da figlio mammone), Stander e Caprioli. Ottimo l’uso del rallenti, suggestiva la fotografia dalle tonalità soffuse giallo - ocra e verdastre, interessante la colonna sonora di Trovajoli, a metà strada tra l’allegro e il romantico. Buona l’ambientazione fiorentina e bucolica. Il regista è bravo a realizzare personaggi credibili, nonostante le situazioni surreali, mentre la sceneggiatura approfondisce psicologicamente il rapporto madre - figlio senza disdegnare un pizzico di giallo. Da riscoprire.

venerdì 19 settembre 2014

Il viaggio (1974)

di Vittorio De Sica


Regia: Vittorio De Sica. Soggetto: Luigi Pirandello. Sceneggiatura: Massimo Franciosa, Diego Fabbri, Luisa Montagnana. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Franco Arcalli. Musiche: Manuel De Sica (incise da Nancy Cuomo). Scenografia: Luigi Scaccianoce. Coreografia: Umberto Perugia. Costumi: Marcel Escoffier. Assistenti alla Regia: Luisa Alessandri, Franco Cirino, Giuseppe Cino. Produzione: Italia/ Francia. Case di Produzione: Compagnia Cinematografica Champion, Capac. Produttore: Carlo Ponti. Durata: 102’. Genere: Drammatico. Interpreti: Sophia Loren, Richard Burton, Annabella Incontrera, Daniele Vargas, Ian Bannen, Barbara Pilavin, Renato Pinciroli, Daniele Pitani, Sergio Bruni, Ettore Geri, Olga Romanelli, Isabelle Marchall, Riccardo Mangano, Luca Bonicalzi, Antonio Anelli, Francesco Leoni.


Il viaggio è il miglior film per augurare buon compleanno a Sophia Loren che, oggi, 20 settembre 2014, compie 80 anni. Quando ha interpretato questo intenso e coinvolgente melodramma era una stupenda donna di quarant’anni, talmente brava da aggiudicarsi il David di Donatello come migliore attrice protagonista e il primo premio al Festival del Cinema di San Sebastian per la migliore interpretazione femminile. Non gode di buona critica l’ultima regia di Vittorio De Sica, che Paolo Mereghetti definisce non troppo felice, formato esportazione, a base di rallenti e colore locale. Non condividiamo, nonostante Morandini rincari: “Ultimo film di De Sica, uno dei suoi peggiori: decorativo, lezioso, inattendibile”. Tullio Kezich se la prende persino con la coppia Loren - Burton che (a suo dire) non funziona: “Lui pensa ad altro, lei recita di maniera”. 


Certo, se paragoniamo Il viaggio ai capolavori del periodo neorealista scritti insieme a Cesare Zavattini, siamo in presenza di un lavoro minore all’interno della filmografia di De Sica. Ma se accettiamo la pellicola come un adattamento in salsa melodrammatica di una novella di Pirandello, un storia d’amore e morte ambientata alla perfezione tra la campagna di Libia e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, dobbiamo promuoverlo a pieni voti. Il viaggio è un film in costume, dotato di una stupenda colonna sonora scritta dal figlio del regista (Manuel) e di una fotografia anticata, flou, dai colori ocra e dalle tonalità pastello, terra bruciata dal sole, che rispecchia l’ambiente siciliano. 


Produzione fastosa di Carlo Ponti che pensa al mercato statunitense e al botteghino, ma lascia liberi gli autori di realizzare un’opera d’arte, visivamente impeccabile, pur in presenza di una sceneggiatura prevedibile. Sophia Loren è Vittoria, donna insoddisfatta per aver contratto un matrimonio senza amore, che riversa il suo affetto sul figlio. Quando muore il marito in uno spettacolare incidente stradale può concedersi una fuga sentimentale con il cognato (Burton) di cui è sempre stata innamorata. Al paese, intanto, le malelingue parlano dei due amanti, la madre di Vittoria scrive per pretendere il rientro e far tacere la vergogna che sommerge la famiglia. Vittoria è malata di cuore e un’ultima forte emozione le sarà fatale. Morirà tra le braccia dell’amato in una scena finale straziante e melodrammatica.


Vittorio De Sica realizza un capolavoro di scenografie e di ambientazione, tra musiche come Tripoli bel suo d’amore, partenze di soldati per la guerra, grida di strilloni che annunciano l’attentato di Sarajevo, fantastiche mulattiere sicule che si alternano a paesaggi napoletani e veneziani. Citazioni del primo cinema muto, rapporti nobiliari e convenzioni d’altri tempi, il fratello maggiore che si sacrifica per compiere la volontà del padre, tutto contribuisce a costruire un solido melodramma, interpretato con intensità dai due protagonisti. 


Molto teatrale, girato in quattro colori e formalmente perfetto, con una musica struggente in sottofondo, un pianoforte romantico che accompagna una sublime ricostruzione d’epoca. Colore locale alla base della storia, tra raccolta di limoni e scacciapensieri, contadini siciliani, popolani e ricchi nobili d’altri tempi. Sophia Loren è talmente brava che si doppia in siciliano, anche se la sua inflessione napoletana è dura da cancellare. 


Girato in inglese e doppiato in italiano, per esigenze di esportazione. Molti rallenti per narrare una bella storia d’amore d’altri tempi, che giunge a compimento troppo tardi, una love story senza speranza che sfuma a Venezia, tra le braccia della morte. Il melodramma tocca il suo culmine proprio mentre la grande guerra sta per sconvolgere l’Europa. Un film girato senza economia, tra Siracusa, Palermo, Milano, Napoli e Venezia. Interni Cine Studi Dear di Roma. Da rivedere.


martedì 16 settembre 2014

domenica 14 settembre 2014

Che casino… con Pierino! (1982)

di Bitto (Adalberto) Albertini



Regia: Bitto (Adalberto) Albertini. Soggetto e Sceneggiatura: Bitto Albertini. Fotografia. Luigi Ciccarese (Technicolor). Scenografie e Costumi: Salvatore Siciliano. Musiche. Nico Fidenco (Edizioni Musicali Roma). Operatore alla Macchina: Carlo Aquari. Aiuto Regista: Mauro Mariani. Fotografo di scena. Gianni leacche. Direttore di Produzione: Roberto Bessi. Casa di Produzione: Anaconda Film (Roma). Teatri di Posa: De Paolis - Incir (Roma). Interpreti: Roberto Gallozzi, Nino Terzo, Antonella Prati, Italo Vegliante, Mara Mays, Giusy Valeri, Marcello Martana, Luciano Martana, Alfredo Adami, Gualtiero Rispoli.



Che casino… con Pierino! è il punto più basso raggiunto dai Pierini apocrifi, ma in assoluto uno dei film italiani più brutti del Novecento, al punto di essere diventato un’icona del trash, un lavoro da vedere e rivedere per rendersi conto fino a che punto poteva spingersi la follia di uno sceneggiatore e l’azzardo di un regista. Bitto (Adalberto) Albertini (1924 - 1999) è un artigiano niente male che nel cinema ha fatto proprio di tutto. Basta sfogliare le pagine del Poppi (I Registi Italiani, Gremese) per rendersi conto che comincia a 18 anni come assistente operatore, prosegue come direttore della fotografia (una serie interminabile di titoli dal 1948 al 1986) e operatore alla macchina (dal 1946 al 1953), per debuttare alla regia nel 1966 con Supercolpo da 7 miliardi (che scrive, sceneggia e organizza).  



La sua firma come direttore della fotografia compare su circa 70 film, piuttosto curati dal punto di vista formale, soprattutto i lavori in bianco e nero, anche se sono opere commerciali e di scarso valore artistico. Come regista firma una ventina di lavori, si ricorda per il volgarissimo - ma ben girato - decamerotico Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno (1972) che ha pure un sequel (…e continuavano a mettere lo diavolo ne lo inferno, 1973) e due pellicole erotiche come Emanuelle nera (1975) ed Emauelle nera 2 (1976). Film avventurosi, erotici, comici, persino mondo movie (Nudo e crudele, 1985 e Mondo senza veli, 1985 sono i suoi ultimi lavori) per un regista senza ambizioni intellettuali o artistiche, ma che produce lavori dignitosi da un punto di vista tecnico. Che casino… con Pierino! è una macchia anche da questa angolazione, perché è un film davvero raffazzonato. Firma quasi sempre Bitto Albertini, anche se a volte ricorre a pseudonimi anglofoni: Al Albert, Albert J. Walker, Stanley Mitchell, Albert Thomas, Ben Norman.



Che casino… con Pierino! comincia alla grande con il protagonista (Roberto Gallozzi, attore di fotoromanzi) che fa il gesto dell’ombrello rivolto alla scuola, schiaccia sotto i piedi la cartella e decide di mettersi a lavorare. Pierino frequenta la scuola elementare (il Pierino di Vitali, le medie), indossa un grembiule nero e un vistoso fiocco azzurro. La parte più originale del film è il prologo, narrato come una storia a fumetti del Signor Bonaventura, il famoso personaggio creato da Sergio Tofano per il Corriere dei Piccoli. I lavori che Pierino tenta di fare sono molti: fornaio, meccanico, elettrauto, macellaio, parrucchiere per signora, benzinaio, cantante… ma finisce sempre per combinare guai. Un ridicolo commento esterno, una voce fuori campo impostata, recita le avventure di Pierino in rima come se fossero didascalie di un fumetto. La tecnica di regia ricorre alla fast-motion  per citare il cinema muto e le vecchie comiche, ma il tenore delle battute e delle situazioni rasenta il ridicolo. Partono i titoli di testa e comincia il film, mentre lo spettatore incredulo ha già conosciuto Il Pantera (Italo Vegliante, un caratterista scomparso dopo effimera notorietà), amico di Pierino specializzato nell’imitazione della Pantera Rosa, e la fidanzata Marisa (una sexy Antonella Prati).



La cosa migliore del film è la musica di Nico Fidenco, si resta stupefatti di come un musicista del suo valore abbia potuto partecipare a una boiata galattica come questa. La sigla di testa, il leitmotiv del film e la canzone che scorre sui titoli di coda fa: “Che casino con Pierino… è il terrore del vicino!”. Certo, non un capolavoro, ma orecchiabile, divertente e intonata al clima da farsa grottesca. La pellicola è imbastita di dialoghi, battute, situazioni e barzellette di una volgarità senza limiti. Non si possono raccontare. Il film va visto per rendersi conto con i propri orecchi e con la propria vista di come si possano non solo superare, ma persino frantumare, i limiti del buon gusto. Nino Terzo - caratterista dalla voce afona - è lo zio di Pierino, proprietario di un bar, specializzato in grandi dormite, russa come un trombone e scoreggia come un animale. Non è molto intelligente perché ogni giorno subisce lo stesso scherzo da due antipatici avventori, uno siculo e l’altro toscano. “Abbiamo visto Gargiulo”, gli dicono. “E chi è Gargiulo?”, chiede Terzo. “Quello che te lo mette in culo!”, rispondono in coro i due burloni. Nino Terzo recita una parte da idiota integrale che fa ridere da quanto è patetica, non riesce neppure a replicare come concordato con la moglie: “E io ho incontrato Bertè… quello che lo mette in culo a te”, perché i due avventori rispondono che Bertè è l’amico di Gargiulo e lui come un fesso: “E chi è Gargiulo?”. 



Una gag patetica, ripetuta all’infinito, un’icona del trash fatto cinema (?), ma c’è di peggio, perché subito dopo tre donne recitano penose battute sui fidanzati neri, che dire razziste non rende bene l’idea. “Il mio è così nero che quando entra in una stanza si deve accendere la luce”, è la conclusione che vorrebbe essere comica. Un film girato e recitato in maniera dilettantesca, pieno zeppo di barzellette assurde e senza senso. La domestica di casa è volgarissima, rozza, incapace, parla in ciociaro, si esprime a parolacce, risponde al telefono con frasi tipo: “Il padrone nun po’ veni’. Sta’ ar cesso”. Quando le chiedono di essere più gentile afferma che “il padrone è al bagno”, ma quando le domandano: “Ce ne avrà per molto?”, risponde: “Non lo so, ma credo faccia presto, quando è entrato stava già scoreggiando”. Copiata da Vitali in un Pierino classico, ma volgarizzata al massimo. Molte le battute riciclate, ma parecchie barzellette e storielle nuove sono così scurrili e stupide che nessuno aveva mai avuto il coraggio di sceneggiarle. 



Basti pensare all’ex calciatore gay che al bar racconta le sue prodezze al negativo dicendo che godeva a farsi mandare affanculo dalla folla, oppure all’americana che impara una parola al giorno ma che scambia testa con culo. Roberto Gallozzi è un Pierino sopra le righe, aiuto barista dello zio, fa lo zabaione e sembra masturbarsi, serve la colazione in camera a un’americana supersexy, frequenta una fidanzata porcellona (Prati), si vede con un idiota integrale come l’amico Pantera e fa esperienze erotiche con la sorella puttana, specializzata a Bologna. Bitto Albertini gira un Pierino che non ha niente di scolastico, il solo esame sostenuto dal protagonista è quello delle urine e teme pure d’essere rimandato, ma per il resto è una comicità lavorativa. Un Pierino imbarazzante che sta a metà strada tra il barzelletta - movie, la commedia sexy e la comicità grottesca e volgare d’un erotico - campagnolo di serie Z. Originale parte di cinema nel cinema con Pierino e la fidanzata che assistono a un gangster - movie volgarissimo dove un assurdo Scarface afferma che “caca in testa a certi compagni di cella” mentre con altri “si pulisce il culo”. La fidanzata afferma: “Sono belli questi film americani. I film italiani sono pieni di volgarità e di parolacce. Questo sì che è un film vero!”. Albertini la prende in parola e subito dopo immortala Pierino che orina sull’autobus perché non c’è scritto divieto di pisciare. Un film del tutto privo di ritmo e di trovate divertenti, che procede per storielle scollegate: il rapimento dello zio, l’alfabeto Morse a suon di scoregge, l’uomo che gli puzza il fiato (consigliati sciacqui di merda), i boy scout che si perdono, la gag del pattone al pelato (copiata). Nino Terzo stitico è uno dei punti più bassi del film.  Memorabile la tristezza della rozza domestica: “Era una festa svegliarsi tra le sue scoregge. Ora c’ha il culo muto!”. Ancor meglio la preghiera della moglie per il marito che non riesce a defecare: “Possa caca’. Possa caca’…!”. Antonella Prati accenna una timida sequenza da commedia sexy quando resta a seno nudo mentre Pierino spia nascosto dietro la tenda del bar. 



Da ricordare Italo Vegliante e le sue patetiche imitazioni: Pantera Rosa, pistoleri western, Elvis Presley…Il film finisce in bruttezza con Pierino e Pantera che vanno in gita in Austria e durante una gara ciclistica offendono i partecipanti. A un certo punto passa un corridore italiano, capisce le ingiurie e grida: “Stronzi!”. Parte la colonna sonora e scorrono i titoli di coda, mentre il povero spettatore non crede a quel che ha visto, pensa che sia stato un incubo, oppure uno scherzo di qualche amico burlone. Il cinema di genere era anche questo, prima del television-movie. E forse era giusto così…



sabato 13 settembre 2014

Mussolini ultimo atto (1974)

di Carlo Lizzani


Regia: Carlo Lizzani. Soggetto e Ricerca Storica: Fabio Pittorru. Sceneggiatura: Carlo Lizzani, Fabio Pittorru. Produttore: Enzo Peri per Aquila Cinematografica. Fotografia: Roberto Gerardi. Montaggio: Franco Fraticelli. Musiche: Ennio Morricone. Direzione Musiche: Bruno Nicolai. Scenografia: Carlo Gervasi, Amedeo Fago. Costumi: Ugo Pericoli. Trucco: Alberto e Giannetto De Rossi. Interpreti: Rod Steiger (doppiato da Nando Gazzolo), Franco Nero, Lisa Gastoni, Lino Capolicchio, Henry Fonda (doppiato da Giorgio Piazza), Rodolfo Dal Pra, Tom Felleghy, John Stacy, Giacomo Rossi Stuart, Giuseppe Addobbati, Renato Paracchi.


Carlo Lizzani (1922 - 2013) è uno dei registi italiani più impegnati del Novecento, una pietra miliare della nostra storia del cinema, poco studiato e persino poco celebrato nell’anno della sua morte. Ex partigiano, non poteva fare a meno di girare un film su Mussolini e di esprimere il suo parere sugli ultimi eventi della guerra di liberazione. Partecipa alla resistenza romana, attivista del Partito Comunista, scrive libri di critica, saggi, sceneggiature neorealiste per De Santis, Rossellini e Lattuada. Il suo debutto alla regia è segnato dal documentario Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato (1950) e dal film Achtung! Banditi! (1951). Tra i suoi lavori più importanti: Cronache di poveri amanti (1954), Fontamara (1980), Mamma Ebe (1985), Caro Gorbaciov (1988) e i televisivi Un’isola (1986) e La trappola (1989). Dirige la Mostra del cinema di Venezia, dal 1979 al 1982, si ricorda per molti saggi storico - critici sul cinema italiano e per un’autobiografia (Il mio lungo viaggio nel secolo breve). Muore nella sua città natale - Roma -, a 91 anni, cremato al cimitero Flaminio dopo funerali in forma civile.


Mussolini ultimo atto è uno dei suoi film più celebrati e trasmessi dalle televisioni italiane. Fabio Pittorru compie un’attenta ricostruzione storica e scrive un soggetto basato sulla versione ufficiale della fucilazione di Mussolini e della Petacci, avvenuta all’ingresso di villa Belmonte, nella zona di Dongo da parte del colonnello partigiano Valerio. Non si fa alcun cenno ad altre ipotesi meno attendibili come quella della uccisione presso casa De Maria. Un film ritenuto scomodo, al punto che il 30 aprile, durante la proiezione, venne fatto esplodere un ordigno al plastico presso un palazzo del centro di Savona. Lizzani è simpatizzante comunista, ma dimostra molta pietas umana nei confronti della figura di Benito Mussolini e soprattutto verso una donna innamorata come Claretta Petacci. Lascia il giudizio politico alla storia, fa pronunciare un atto di accusa contro il fascismo ai personaggi dei partigiani, preferendo mettersi da parte e tracciare la psicologia di un uomo sconfitto. 


Lizzani ripercorre la parabola decadente di Mussolini, dopo la fine della Repubblica di Salò, racconta gli ultimi giorni del duce in fuga, fino alla sua cattura, travestito da soldato tedesco, avvenuta a Dongo, da parte della sezione Garibaldi dei partigiani di Como. La figura di Mussolini è quella di un uomo patetico, sconfitto, che ricorda con nostalgia il passato splendore, cercando di convincere i suoi aguzzini che la colpa è stata soltanto di Hitler. Il regista alterna la fiction realistica, che gode di una perfetta ricostruzione ambientale e scenografica, con filmati d’epoca che documentano gli eccidi bellici, la lotta fascista contro i partigiani, gli orrori della guerra civile, ma anche le parate e i fasti d’un regime che celebra se stesso. Musica di Morricone suggestiva e mai invadente, fotografia lacustre e montana dai toni pastello che varia dal giallo ocra al rosso soffuso, come per rendere la tristezza degli ultimi giorni di vita d’un uomo finito, montaggio serrato, costumi e ambienti ben ricostruiti. 


Rod Steiger è un Mussolini troppo caricaturale e la sua mimica facciale non cambia quasi mai. In compenso Lisa Gastoni è una Claretta Pettacci umana e credibile, il ritratto dolente d’una donna innamorata che non sa vivere senza il suo uomo e sceglie di morire insieme a lui. Per quanto gli ultimi giorni del duce sono il racconto d’una vigliaccheria quasi esibita, la figura eroica che sovrasta il racconto è proprio quella della sua amante. Franco Nero è il comandante Valerio, colui che è deputato a eseguire la sentenza di morte per evitare che gli americani catturino Mussolini e lo sottraggano alla giustizia popolare. Perfetto nei panni del duro, del partigiano senza scrupoli, così come è bravo Lino Capolicchio a impersonare il partigiano più razionale e umano. Henry Fonda è un impacciato cardinale di Milano, fuori parte, un interprete sprecato per un simile ruolo. 


Carlo Lizzani gira il film come se fosse un documentario, imprimendo toni realistici che solo in poche occasioni lasciano spazio al melodramma romantico. Ottima la tecnica del flashback con cui il regista alterna la decadenza degli ultimi giorni e i ricordi dei fasti imperiali, inserendo opportuni filmati d’epoca prelevati dai cinegiornali anni Trenta prodotti dall’Istituto Luce. Ne viene fuori un racconto partecipe, emotivo, compassionevole delle ultime ore di Mussolini. La critica di sinistra degli anni Settanta puntò il dito accusatore sul fatto che nelle sequenze finali lo spettatore è portato a parteggiare per il duce e a desiderare che non venga fucilato. In definitiva sono i partigiani a fare la figura degli spietati esecutori d’una sentenza che non tiene in minimo conto la pietas umana. Mussolini, invece, sembra un uomo distrutto, indifeso, che pensa alla salvezza di moglie e figli, che vuole accanto a sé negli ultimi istanti l’adorata Claretta. Un uomo solo, abbandonato da tutti, disperato, in fuga dal suo passato, che “sarà ricordato come l’uomo che ha fatto arrivare i treni in orario”, come dice il cardinale di Milano al suo segretario.

giovedì 11 settembre 2014

Quella peste di Pierina (1982)

di Michele Massimo Tarantini


Regia: Michele Massimo Tarantini. Soggetto e Sceneggiatura: Piero Regnoli. Fotografia: Pasqualino Fanetti (Telecolor/ Technolux). Montaggio: Alesandro Lucidi. Scenografie: Franco Cuppini. Musiche: Franco Campanino. Edizioni Musicali: Nazionalmusic. Aiuto Regista: Domenico Lo Zito. Operatore alla Macchina: Renato Doria. Fotografo di Scena: Tonino Alessi. Produttore: Pino Buricchi per Ladan International Film. Presentato da: Riccardo Billi. Teatri di Posa: R.P.A. Elios. Esterni: Roma. Negativi: Kodak spa. Interpreti: Marina Marfoglia, Oreste Lionello, Lucio Montanaro, Ugo Fangareggi, Galliano Sbarra, Adriana Facchetti, Clara Colosimo, Giuseppe Cappelli, Antonio Viespoli, Bruno Rosa, Vincenzo (Enzo) Andronico, Maurizio Mattioli, Leonardo Cassio, Jimmy il Fenomeno, Francesca Romana Coluzzi, Carmen Russo.


Quella peste di Pierina (1982) è uno dei peggiori Pierini apocrifi che si ricorda solo per un’originale quanto improbabile declinazione al femminile del sottogenere. Piero Regnoli scrive e sceneggia un lavoro indefinibile, un ibrido tra barzelletta movie e commedia sexy che vedono davvero in pochi. Ricordiamo una buona sigla a disegni non animati e una divertente canzonetta - Pierina la peste – che scorre sui titoli di testa, composta da Giglio e Campanino, eseguita da Ro Mallardo. Pierina si presenta subito come voce fuori campo, mentre Tarantini fa muovere la mdp per alcune suggestive panoramiche di Roma, la città eterna. Un Pierino in gonnella che affida la parte comica a Marina Marfoglia ma soprattutto a Lucio Montanaro – il vero Pierino della situazione - e Oreste Lionello. Il suo handicap più grave sta nella scelta di un’attrice poco adatta come la Marfoglia, anche se la frase di lancio afferma: Di Pierini ce ne sono tanti… ma Pierina li batte tutti quanti! Il film esce in piena guerra dei Pierini dopo il successo di Marino Girolami con Alvaro Vitali, sfrutta una serie di barzellette residuali e raschia il barile della comicità scolastica, realizzando una serie di scenette quasi deprimenti visto lo scarso ritmo e solo parzialmente collegate.


Barzellette tipo: “Passa di qui il 27?”. Risposta:“Ci passo tutti i giorni”. Vigile: “Sono cinque anni che lavoro qui e tu passi sempre con il rosso”. Pierina: “Non è colpa mia se non fai carriera”. Lucio Montanaro è il più credibile come unico alunno maschio in una sezione femminile, innamorato incompreso di Pierina che usa la scorreggia per difendersi dalla giunonica professoressa di ginnastica (Coluzzi). Marina Marfoglia duetta con Carmen Russo (sorella sexy) a colpi di “Con quel culo che ti ritrovi dev’essere una fatica portarlo a spasso!” e soprattutto le fa scappare di casa tutti i fidanzati. Carmen Russo è la sola variante sexy in un film dichiaratamente farsesco, spesso la macchina da presa insiste sul suo corpo seminudo, in vasca da bagno, in camera, vestito di completi intimi seducenti. La commedia sexy fa capolino quando la Marfoglia spia la sorella dal buco della chiave mentre amoreggia con un fidanzato bersagliere. Sequenza innovativa perché non avevamo mai visto nel cinema comico - erotico una donna spiare un’alta donna, pure se Pierina non ha caratteristiche femminili, ma è raffigurata come una via di mezzo tra Gian Burrasca e Pippi Calzelunghe. 


Carmen Russo ha tutti fidanzati militari, ma il più trash e surreale è Ugo Fangareggi che mentre la ragazza si spoglia racconta stupide barzellette sui carabinieri. Un fidanzato marinaio viene allontanato perché Pierina lo convince che è capitato in una casa chiusa e che la sorella fa la prostituta. Marina Marfoglia appare in una rapida sequenza sexy, indossa un abito appariscente, finge di fare il mestiere più antico del mondo e mostra le gambe nude velate da calze nere. Francesca Romana Coluzzi è una giunonica professoressa di educazione fisica, ma insegna pure sessuologia, ma quando spiega il Tampax interviene Pierina per dire che è “il lecca lecca del bambino”. Per non aggiungere che “il plurale di sesso è orge” e che “una vergine è una bambina di tre anni con i baffi, molto brutta”. Il film procede a suon di scherzacci, battute volgari, presidi arroganti, professori inetti, studenti svogliati, pernacchie, scoregge e situazioni ispirate al Pierino di Girolami.


Oreste Lionello interpreta un surreale professor Alceo Taccone, detto Il Tigre, così temibile che parla un buffo tedesco da nazista, porta baffetti stile Hitler, ha una protesi di ferro al posto della mano destra, mette sull’attenti vestiti e cappelli e pretende il saluto romano. Un personaggio fiacco e stereotipato, scritto male, imbarazzante per un attore del valore di Lionello. Pierina non lo teme per niente e va da sé che prende in giro anche lui. Dobbiamo citare la volgarissima serie di battute tra Montanaro, Marfoglia e Lionello: “Il melo dà la mela, il pero dà la pera, il fico dà la fica, il caco la cacata e il finocchio dà il culo”. Siamo al massimo del trash. Adriana Facchetti interpreta una divertente nonna di Pierina  che si spaccia per madre, concupisce il preside ricordando un vecchio amore, quindi gli fa credere che la ragazza è sua figlia. Jimmy il Fenomeno ricopre un ruolo più lungo e complesso del solito, nei panni del bidello vessato dagli scherzi di Pierina e del suo compare Gian Maria.


Lucio Montanaro è il più bravo, da un punto di vista comico, perché calato a dovere nella parte del bambino terribile. Pierina viene cacciata da scuola, insieme al professor Tigre, ma i die si ritrovano ancora - in una nuova classe - per uno scambio di battute finale ai limiti del trash. Lionello: “Come si scrive uccello?” Marfoglia: “Con due zeta!” Lionello: “Mi spiego meglio. Cosa deve avere l’uccello per essere perfetto? Marfoglia: “Due palle così!”. Il film si conclude come peggio non potrebbe, ma diverte ancora come manifesto di un’epoca e come icona della comicità trash.