mercoledì 30 marzo 2016

L’ultima orgia del Terzo Reich (1977)

di Cesare Canevari
 
 
Regia: Cesare Canevari. Soggetto: Antonio Lucarella. Sceneggiatura. Cesare Canevari. Fotografia. Claudio Catozzo. Montaggio: Enzo Monachesi. Musica: Alberto Baldan Bembo. Edizioni Musicali: Music Copyright S.A.A.R. (Milano). Direttore di Produzione: Ruggero Gorgoglione. Assistente alla Regia: Daniele Sangiorgi. Scenografie: Ercole Lura. Costumi: Alberto Giromella. Operatore alla Macchina: Sergio Fontana. Effetti Speciali: Guido Chiappin. Produzione: Cine Lu. Ce. Production (Milano) di Cesare Canevari. Post Sincronizzazione: Cinitalia Edizioni (Roma). Interni: De Paolis (Milano). Negativi e Pellicola: Luciano Vittori. Colore: Telestampa (Roma). Titolo inglese: The Gestapo’s Last Orgy. Interpreti: Daniela Levy (Daniela Poggi), Maristella Greco, Fulvio Ricciardi, Antinesca (Antineska) Nemour, Caterina Barbero, Domenico Serengai, Vittorio Joderi, Pietro Bosco, Pietro Vial, Renato Paracchi, Maria Grazia Cisera, Santino Polenghi.


Cesare Canevari (Milano, 1927 - 2012) è un regista - sceneggiatore, autore di fotoromanzi e persino attore, che si ricorda soprattutto per l’erotico - sociale Io, Emmanuelle (1969), interpretato da Erika Blank. Tutta la sua produzione viene ricompresa nell’arco temporale 1964 - 1982, dopo di che il regista scompare nel nulla e torna nell’oblio.


Debutta con un western all’italiana all’insegna del risparmio, girato nelle Prealpi lombarde: Per un dollaro a Tucson si muore (1964), firmato con lo pseudonimo D. Browson, pure interpretato con il nome d’arte di C. Iravenac. Il secondo lavoro, Una jena in cassaforte (1967), è un incentrato sulla storia di sei rapinatori che si contendono il bottino di una rapina e finiscono per diventare vittime e carnefici di loro stessi.


Matalo! (1970) è uno coproduzione italo - spagnola che segna il ritorno di Canevari al western, in chiave più originale, pop e psichedelica, creando situazioni, ambienti e personaggi ai limiti del fumettistico. Lou Castel e Corrado Pani sono gli interpreti principali. Il romanzo di un giovane povero (1974) è la versione canevariana del romanzo di Feuillet, scritta e sceneggiata da Mino Roli e Daniele Del Giudice. La principessa nuda (1976) è un film insolito da recuperare perché supera i limiti del trash. Ajita Wilson, un trans di colore scomparso prematuramente, è l’interprete principale, ma divide la scena con Tina Aumont che si abbandona a tentazioni lesbiche. Non poteva mancare un nazi-erotico nella breve carriera di Canevari, che nel 1977 gira L’ultima orgia del Terzo Reich, che si ricorda per le belle interpreti Daniela Poggi (al suo secondo film, si fa chiamare Daniela Levy) e Antinesca Nemour. I nazi - erotici nati sulla scia dello scandalo del pasoliniano Salò sono un po’ tutti uguali, un sottogenere partorito dalla degenerazione di una pellicola calcando la mano su erotismo e perversione.
 
 
L’ultima orgia del Terzo Reich (1977) è uno dei più eccessivi nazi erotici scritti e sceneggiati dopo la scalpore creato dal Salò (1975) di Pasolini e le polemiche provocate dalla visione di Salon Kitty (1976) di Tinto Brass. Infatti molte sequenze ricordano l’uno e l’altro film, a immagini alterne, in una sorta di omaggio che rasenta il plagio spudorato. Si pensi alla parte fotografica in cui si mostrano ebrei che si cibano di feci, alle torture con i topi che divorano i genitali femminili, ma anche al rapporto sessuale di gruppo dal tono atletico tra soldati tedeschi e detenute ebree. Vediamo la storia. Un ex comandante delle SS viene scarcerato e assolto nel processo per crimini di guerra grazie alla testimonianza della ex deportata Lise Cohen (Poggi), una delle sventurate inserite nel Liebenkamp, il Campo dell’amore, un bordello per ufficiali. Non sa che la ragazza si finge innamorata per vendicarsi in prima persona da un aguzzino che l’ha fatta soffrire, giungendo persino a sopprimere il figlio nato dal loro rapporto. La storia si dipana per flashback, partendo dal luogo d’incontro tra ebrea e nazista: i resti del campo di concentramento. Inutile dire che siamo in presenza di un contenitore di orrori e di sesso perverso oltre ogni limite, tra cani che sbranano prigioniere, ufficiali che sopprimono ragazze e virago naziste peggiori dei colleghi uomini. Il regista insiste sul rapporto sadomasochista che lega Konrad a Wagma, la nazista incaricata di tenere a bada le ragazze. Lise si salva perché dimostra di non avere paura e di non provare dolore, nonostante le sevizie e le torture. Alla fine nasce un rapporto d’amore perverso tra Lise e Konrad, che la ragazza favorisce per non essere uccisa e poter rivedere i familiari. Finale imprevisto che contamina il nazi - erotico con il sottogenere dello stupro e vendetta.
 
 
L’ultima orgia del Terzo Reich non è un buon film, come non lo sono in assoluto tutti i nazi erotici, troppo sadici e perversi per essere apprezzati. Viene ricercato dagli appassionati perché è il film più estremo interpretato da Daniela Poggi, vera mattatrice della situazione, nuda come non lo sarà più, tra rapporti erotici rubati, sevizie e torture di ogni tipo. Si ricorda la sequenza che la vede appesa per i piedi sotto la minaccia di essere fatta divorare dai topi, ma anche quella con l’ufficiale nazista che le passa la pistola per tutto il corpo finendo per farle leccare la canna del tamburo. Per il resto la storia è uguale a molti altri simili prodotti che prevedono un copione a base di perversioni interpretato da sadici nazisti, maschi o femmine, con uno soltanto a vestire i panni del buono. Molto verboso, diverse sequenze raccontate per fotogrammi, particolarmente assurda la sequenza in cui un folle medico teorizza la bistecca di ebreo come rimedio alla fame nel mondo. E si finisce per servirla in tavola…Una prigioniera che sviene per il disgusto viene cosparsa di carne arrosto, imbevuta di cognac, e cucinata seduta stante come un maialino alla fiamma. Il film è girato in una fornace fuori uso sul Lago d’Iseo e per gli interni alla De Paolis di Milano. Insuccesso al botteghino, al punto che viene addizionato di sequenze hard per il mercato estero e per i circuiti a luci rosse. Uscito in Francia, USA e Spagna.
Terminiamo la rapida rassegna sul cinema di Canevari, promettendo ulteriori approfondimenti, in parte già reperibili nella blogzine.  Per la figura del regista, il nazi erotico e alcuni suoi film, si veda: http://cinetecadicaino.blogspot.it/search?q=cesare+canevari.


Allarme nucleare (1979) viene firmato da un certo Leslie Martinson, ma pare un film di Canevari, un fantanucleare improbabile e dimenticato, interpretato da Karin Schubert e John Carradine. Delitto carnale (1982) è l’ultimo film di Canevari, uno dei pochi che non si produce da solo, in ogni caso povero e girato in dieci giorni in un albergo di Monopoli. Si tratta di un giallo classico, non molto originale, memorabile solo per alcune sequenze erotiche che vedono protagoniste Moana Pozzi e Sonia Otero. Tra l’altro Delitto carnale viene rimontato in versione hard e incassa molto sul mercato Home Video con il titolo Moana la pantera bionda. Il regista disconosce la versione porno da lui mai autorizzata.

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martedì 15 marzo 2016

Anda muchacho, spara! (1971)

di Aldo Florio



Regia: Aldo Florio. Soggetto e Sceneggiatura: Bruno Di Geronimo, Aldo Florio, Eduardo Manzanos Brochero. Fotografia: Emilio Foriscot. Montaggio: Romeo Ciatti. Musiche: Bruno Nicolai. Scenografia: José Luis Galiacia, Jaime Pérez Cubero. Trucco: Fabio De Rossi. Produttore: Eduardo Manzanos Brochero. Produttore Esecutivo: Alfredo Nicolai. Case di Produzione: Copercines, Cooperativa Cinematografica, Italian International Film, Roberto Cinematografica, Transeuropa film. Paesi Produzione: Italia, Spagna. Distribuzione: IIF. Esterni: Spagna. Interni: Cinecittà. Durata: 105’. Genere: Western. Interpreti: Fabio Testi, Eduardo Fajardo, Ben Carrà, Roman Barrett, Massimo Serato, Luciano Pigozzi, Daniel Martín, Charo López, José Calvo, José Nieto, Goffredo Unger.

 
Aldo Florio non è un regista specializzato in western, non gira opere memorabili, neppure sceneggia capolavori (tra le sue cose migliori due postatomici di Joe D’Amato, Crimine contro crimine e I cinque della vendetta). Anda, muchacho, spara! pur restando western di pura imitazione di Sergio Leone - ispirato a Per un pugno di dollari da cui ricalca intere sequenze - è il suo lavoro migliore, considerato positivamente da critica italiana e spagnola, di pari passo a un buon riscontro di pubblico. Matteo Mancini nella sua monumentale quanto indispensabile Storia del Western Italiano, giunta al terzo volume, è il critico meno entusiasta, proprio perché da profondo conoscitore del genere nota lo spirito emulativo e molte sequenze spudoratamente copiate da Sergio Leone. In breve la trama, che ricalca analoghi lavori western.  Fabio Testi è il pistolero Roy Greenford in fuga da una colonia penale insieme a Emiliano (Serato), un ribelle messicano che muore durante la fuga. Roy raggiunge il villaggio di Emiliano, dove spadroneggia il terribile Redfield (Fajardo), coadiuvato da Lawrence (Carrà) e Newman (Barrett). Il compito di Roy sarà quello di liberare il villaggio di minatori e cercatori d’oro dai padroni dispotici, innamorandosi - tra un duello e l’altro - della bella Jessica  (López), che si mostra seno nudo in una fugace sequenza erotica. Alla fine la giustizia trionfa e i minatori comprendono che devono imparare a difendersi da soli contro gli sfruttatori.





Anda, muchacho spara! esce in Italia nel 1971 e in Spagna nel 1972, nota anche come Il sole sotto la terra, in castigliano El sol bajo la tierra. Si ricorda per un'ottima colonna sonora morriconeggiante composta da Bruno Nicolai.

Pregi della pellicola. Attori ben calati nella parte, Fabio Testi su tutti nel ruolo del buono, prima vessato e percosso dai cattivi, quindi implacabile giustiziere; Eduardo Fajardo ricopre bene il suo ruolo storico da perfido individuo, in questo caso pure guardone in odore d’impotenza. Charo López è una sensuale attrice spagnola che riveste un ruolo erotico - avventuroso come chiave di volta della vicenda, artefice della fuga del bel pistolero non esita a concedersi a un carceriere pur di salvarlo. José Calvo è un convincente vecchietto messicano, Luciano Pigozzi un ottimo caratterista, Massimo Serato bravo come sempre nel ruolo dell’amico sfortunato.


Ambientazione messicana resa da una Spagna caliente e torrida ben mimetizzata in un villaggio ricostruito alla perfezione. Scenografia senza sbavature. Fotografia che rende tutte le suggestioni del genere. Sceneggiatura senza buchi, rapida e appassionante. Tecnica di regia buona con riprese in primissimo piano degli occhi, molto zoom e attenzione ai particolari, inquadrati con occhio esperto. Difetti non molti, ma non ci resta che condividere con Mancini lo sconcerto per troppe soluzioni narrative desunte da Per un pugno di dollari, persino certi vezzi del pistolero e il modo di vestire alla Clint Eastwood. Aldo Florio non farà di meglio, comunque. Da rivedere.

 
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domenica 6 marzo 2016

Il mio amico Peppe Zullo (2016)

di Stefano Simone


Regia: Stefano Simone. Musiche: Luca Auriemma. Post-produzione: Stefano Simone. Genere: Documentario. Origine: Italia. Anno: 2016. Formato: 1.77:1. Audio: Stereo PCM. Produzione: Indiemovie. Durata: 76’. Interpreti: Peppe Zullo, Marco Di Baru, Ciro Famiglietti, Caterina Melillo, Matteo Perillo (v.o.).


“Non puoi pensare bene, non puoi amare bene, non puoi dormire bene… se non mangi bene!”, dice Virginia Woolf. Stefano Simone mette la frase in apertura, quasi a sottolineare che dopo tanto cinema a soggetto e qualche videoclip musicale, cambia genere e passa al documentario classico. Non per cavalcare la moda della cucina, argomento molto presente sia nei palinsesti televisivi che in libreria, debordante persino nella pura fiction cinematografica. Simone si dedica al racconto culinario di Peppe Zullo perché ha radici profonde con la cultura della sua terra e diventa quasi la storia di un uomo che ha coronato un sogno grazie a passione e impegno. 


Il documentario ha un taglio classico che interessa e avvince. Lo stratagemma tecnico è far parlare il protagonista - un vero affabulatore - intervistato da due ragazzi, alternandolo con i commenti dei due intervistatori con una ragazza che non ha conosciuto il cuoco. Completa il quadro una voce fuori campo, teatrale ma non troppo impostata, mai fastidiosa né invadente. Immagini e parole costruiscono la storia di un uomo che ha cominciato facendo il benzinaio, ha girato il mondo aprendo ristoranti negli Stati Uniti e in Messico, quindi ha deciso di tornare a casa per aprire un vero angolo di Paradiso a Orsara. Un posto delle fragole culinario, in definitiva, perché il protagonista costruisce il suo regno nei luoghi dove è stato bambino, servendo in tavola prodotti del suo orto dei miracoli, pesce di fiume e vini della sua terra. Un documentario ben girato, fotografia limpida, esterni suggestivi tra la proprietà Zullo e il paesino foggiano, montaggio sincopato, musica sintetica che ben accompagna le immagini. Abbiamo avvicinato il regista per avere la sua interpretazione autentica.


Perché questo repentino passaggio alla non fiction?

Volevo affrontare per la prima volta un genere che non conoscevo molto, diciamo quasi per niente. Nonostante avessi visto pochissimi documentari, credevo fosse interessante affrontare questo formato, anche perché il mio stile è in partenza molto realistico. L’argomento culinario mi sembrava una cosa del tutto nuova da affrontare, anche se la mia intenzione era anche e soprattutto raccontare il rapporto dell’uomo con ciò che la natura offre. Per cui, non potevo non chiamare che Peppe Zullo, un'autorità nel campo; parliamo del cuoco che ha rappresentato la Puglia a Expo 2015. Quando l’ho contattato si è dichiarato subito entusiasta e in poco tempo abbiamo realizzato questo film.

Pensi di ripetere esperienze di non fiction?

Certo! Ho già in cantiere un altro docufilm che tratta le problematiche dei ragazzi disabili. Inizialmente avevo previsto di girarlo a gennaio, ma la post-produzione de Il mio amico Peppe Zullo ha richiesto più tempo del previsto, per cui ho dovuto far slittare l’inizio delle riprese. Devo valutare quando girare in base ai miei impegni. Alcune riprese di repertorio sono già pronte.

Per un regista è più appagante la fiction o il documentario?

Entrambi. Sono due formati diversi che richiedono un approccio diverso alla narrazione, alle riprese e ovviamente al montaggio.


Cosa bolle in pentola?

Oltre al docufilm sopracitato, a settembre girerò un lavoro di finzione sul tema del bullismo scolastico, anche se lo stile sarà estremamente realistico. E poi c’è un altro bel progetto che m’interessa molto, ma al momento non posso dir nulla. Infine videoclip e alcuni corti per le scuole.



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giovedì 3 marzo 2016

Un giorno alla fine di ottobre (1977)

di Paolo Spinola


Annie Belle al telefono

Regia: Paolo Spinola. Soggetto: Paolo Spinola. Sceneggiatura: Poalo Spinola, Carlo Castellaneta. Musiche: Daniele Patucchi. Edizioni Musicali: Cam (Roma). Fotografia: Aldo Di Marcantonio. Scenografia: Carmelo Patrono. Montaggio: Vincenzo Verdecchi. Direttore di Produzione: Claudio Biondi. Aiuto Regista: Fritz Golner. Fonico: Ivo Morbidelli. Assistente Operatore: Sandro Battaglia. Doppiaggio: Sincrovox, diretto da Emilio Cigoli. Distribuzione: INC - Italnoleggio Cinematografico. Produzione: Bruno Ridolf. Casa di Produzione: Co. M. E. C.. Teatri di Posa, Colore, Suono: Cinecittà. Interpreti: Al Cliver (Pier Luigi Conti), Annie Belle, Mariangela Giordano, Violetta Chiarini, Livia Cerini, Filippo Panseca.

 Al Cliver (1951), il protagonista maschile
Paolo Spinola conclude la sua attività di regista con Un giorno alla fine di ottobre, scritto nel 1969 – in piena contestazione studentesca – ma girato soltanto alcuni anni dopo ed entrato in distribuzione nel 1977, quando i problemi erano altri, si parlava di terrorismo, non di scontri di piazza tra polizia ed extraparlamentari, tra studenti e forze dell’ordine. Un giorno alla fine di ottobre è comunque - al momento in cui scriviamo - il più raro e invedibile film di Spinola, al punto che ci siamo dovuti accontentare di un riversamento DVD da VHS di un’edizione doppiata in castigliano. Il film non guadagna dal pessimo doppiaggio iberico, perché sentire Al Cliver e Annie Belle esprimersi in un forbito spagnolo da Real Accademia non aiuta lo svilupparsi della storia e l’immedesimazione nella tematica contestatrice. Tra l’altro la solerte censura iberica concede il visto del Ministero della Cultura (numero 15861) sconsigliando la visione ai minori di anni 13. Film sessantottino, dunque, ma in definitiva storia d’amore e politica del 77, ché gli scontri di piazza non mancano neppure in quel periodo storico. Al Cliver è Lorenzo, dirigente in carriera alla Montedison di Milano, non troppo convinto del ruolo, innamorato della vita e delle belle donne. Mariangela Giordano è la sua segretaria - amante, che vede per lui un futuro radioso in azienda, vorrebbe sposarlo e intanto lo presenta ai genitori borghesi. Annie Belle è Cristina, la variabile impazzita, la ragazzina (figlia di borghesi) pervasa da idee contestatrici inculcate da un fratello movimentista finito in galera per aver compiuto espropri proletari.
 Annie Belle (1956), la protagonista femminile
Lorenzo s’innamora perdutamente di Cristina, dopo aver trascurato un’altra possibile conquista (Livia Cerini) e soprattutto il lavoro, ma la ragazza concede solo una notte d’amore in albergo, quindi si nega e si ritira nella solitudine della famiglia. Finale scontato con Al Cliver che corre nella notte a bordo di una moto, non rispetta uno stop e si schianta a gran velocità sulla fiancata di un camion. Paolo Spinola è un buon regista e anche questa storia presenta alcuni motivi di interesse, anche se resta il prodotto meno originale tra i suoi quattro lavori. Da un punto di vista tecnico abbiamo un intelligente uso del flashback, diversi split screen a tendina, insolite dissolvenze e persino una parte girata come se Al Cliver e Annie Belle fossero due personaggi dei cartoni animati. Fotografia autunnale con toni che tendono al giallo ocra,  visione di una Milano grigia e nebbiosa, tra parchi gelidi e traffico cittadino, metropolitane affollate e primi cartelli pubblicitari invasivi. Colonna sonora suadente, romantica, con toni di tromba e pianoforte.  Impostazione teatrale, dialoghi lunghi e forbiti, a tratti grondanti retorica, infarciti di accuse e contestazione nei confronti di un sistema marcio e consumista. Si ente la mano di Carlo Castellaneta (1930 - 2013) nella scrittura del testo e nella sceneggiatura, soprattutto l’influenza del romanzo Notti e nebbie (1975) da cui fu tratta una miniserie televisiva, diretta da Marco Tullio Giordana,  ambientata a Milano. Al Cliver interpreta un ruolo insolito, da seduttore e borghese pentito, mostra persino un nudo integrale dopo una doccia (forse in polemica con la commedia sexy che inflaziona il mercato di docce femminili) e interpreta alcune intense sequenze erotiche con la seducente Annie Belle. Commedia sviluppata secondo toni grotteschi: l’incontro con la ragazza per aver risposto a una chiamata taxi, l’intervista surreale sul traffico cittadino, i momenti di vita in fabbrica... Non mancano elementi drammatici, caratterizzati da attenzione sociale, come sequenze di scontri tra polizia e studenti, immagini d’epoca miscelate  con sequenze di fiction, oltre a una violenta aggressione di teppisti a una coppia che sta passeggiando.
 Il precedente film di Spinola (1969)
Un po’ datata la filippica antiborghese, portata avanti da una ragazzina che più borghese non si può, ma intrisa di idee contestatrici. Da citare la partecipazione dell’artista Filippo Panseca, nella parte di se stesso, che spiega il suo modo di fare pittura contestatrice, in funzione anticonsumistica e anticapitalistica. Film politico, dunque, forse il solo film politico di Spinola, che nei precedenti si era limitato ad analizzare introspettivamente complesse figure femminili in conflitto con la società. Pure qui il personaggio più interessante è caratterizzato da Annie Belle, ma la sua figura femminile risente di troppi cliché del periodo storico - è una ribelle anticonformista di maniera - ed è meno originale rispetto ai ritratti precedenti messi in campo da Spinola. Per aggiungere retorica al già visto abbiamo la figura di un aristocratico annoiato, invaghito della ragazza, ma impregnato di tendenze autodistruttive. In definitiva troppi i cliché espressi da Spinola per essere accettati: la ragazzina ribelle e rivoluzionaria figlia di buona famiglia, l’aristocratico corrotto che sente il peso della fine di un’epoca, il borghese che accetta la società ma va in crisi per colpa della ragazzina. La storia d’amore tra un borghese integrato e un’aspirante rivoluzionaria finisce con la ricerca del suicidio e il crollo delle certezze, come regola impone e come sceneggiatura prevedibile pedissequamente tratteggia. Pieno di difetti, certo, ma a suo modo interessante, da vedere come documento di un periodo storico.
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